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Una mia intervista per la newsletter di Arci Solidarietà

1. Come valuta i suoi primi nove mesi di lavoro in Regione? Quali sono le esperienze più significative di questi primi mesi di lavoro?

Sono stati mesi di lavoro intenso, a tratti frenetico. Il primo impatto è stato senza dubbio con la dimensione dell’istituzione Regione Lazio. Un ente grandissimo che abbiamo trovato stracarico di centri decisionali e di potere: una specie di superfetazione dei livelli e delle competenze che mal si conciliava con i moltissimi compiti e le responsabilità a cui è chiamato un ente come la Regione. Da subito ci è stato chiaro che nessuna “buona politica” sarebbe stata possibile senza prima mettere in campo un serio processo di “semplificazione”, per questo ritengo che il primo grande passo fatto dal Presidente Zingaretti, quello di ridurre le direzioni regionali, che sta proseguendo ora con la riduzione delle società regionali, sia stata e sia la condizione necessaria per il nostro governo del Lazio. Delle fondamenta solide ma nuove, per ri-costruire una Regione piegata dal malgoverno degli ultimi anni e – naturalmente – dalla crisi economica.
L’altro impatto che ho avuto una volta entrata in Consiglio Regionale è stato senza dubbio quello con i numeri, i conti, il “buco” ereditato dalla passata amministrazione: 22 miliardi di debiti. Una cifra mostruosa che accompagna come un convitato di pietra la nostra azione di governo: da quel deficit occorre rientrare, per ridare fiato alle imprese, alle famiglie, ai cittadini della nostra Regione. Occorre chiudere quel buco e contestualmente dare il via a un nuovo modello di sviluppo per il Lazio, che si affranchi definitivamente dalla stagione degli sprechi, dello sperpero delle risorse, del malaffare.
Non c’è dubbio infatti che il terzo impatto che ho avuto nel mio nuovo ruolo di consigliera regionale sia stato con quelli che io chiamo “i fantasmi di Fiorito e di Maruccio”, la rappresentazione plastica di come la politica nel nostro Paese fosse arrivata a un livello talmente basso da portare alla rottura quasi definitiva del rapporto fra i cittadini e le istituzioni, fra i rappresentati e i loro rappresentanti, un rapporto tutto da ricucire. La vera sfida da vincere nei prossimi cinque anni.

2. Nella sua esperienza personale e professionale di “giornalista libera, indipendente e di sinistra” come lei stessa scrive, c’è sempre stato un impegno sociale al fianco dei più deboli, per l’inclusione e per il rispetto dei diritti di tutti. Cos’ha portato con sé in Consiglio Regionale e cosa pensa che la sua esperienza può portare nella politica istituzionale?

Intanto dico questo: io credo che lo stare al fianco dei più deboli, considerare il loro benessere come l’unità di misura indispensabile delle scelte da prendere, sia il miglior metodo di governo possibile. Solo garantendo i diritti a chi meno se li è visti riconosciuti fino ad oggi potremo dire di averli garantiti davvero a tutti, di aver costruito una società giusta ed inclusiva nonché una piena cittadinanza. Per troppo tempo anche in questa Regione abbiamo assistito alla stagione dei “diritti per sottrazione”, i diritti sì “ma fino a un certo punto” e ciò ha contribuito insieme alla crisi ad incattivire le nostre città e le relazioni fra noi e i nostri concittadini.

Mi chiedete dunque cosa ho portato di mio dentro la politica istituzionale. Credo di aver portato innanzitutto la voglia di cambiare e migliorare il mondo non dall’alto di una postazione acquisita, ma insieme alle moltissime intelligenze collettive e alle ottime pratiche che ho incontrato nei miei lunghi anni di cronista e giornalista: è il pensiero che letteralmente mi assilla ogni volta che mi siedo alla mia scrivania nell’ufficio della Pisana. È necessario non chiudersi, intraprendere quotidianamente la fatica dell’incontro e del confronto, spingere per la migliore sintesi, la più avanzata, e solo allora mettere in campo le decisioni prese, abbiano queste la forma di una nuova legge, di un tavolo regionale, di un progetto da finanziare. Per me questo è il metodo, tra l’altro a mio modo di vedere anche l’unico praticabile ora che le risorse a disposizione degli enti locali sono pochissime: solo un’alleanza vera, basata su un nuovo rapporto di fiducia fra istituzioni e partiti da una parte e associazioni, movimenti e società civile dall’altra, ci può mettere nella condizione di vincere la nostra sfida per un futuro più giusto e migliore. Secondo me la politica oggi o fa questo o – davvero – perde la sua ultima occasione.

3. In una sua nota del 9 settembre 2013 – dopo aver partecipato alla conferenza stampa di presentazione del documento di Arci Solidarietà Onlus e Associazione 21 luglio sulla questione abitativa dei rom a Roma – ha annunciato la convocazione di un tavolo tra la Regione e le associazioni per proporre una revisione della Legge Regionale 82 del 1985.
A quasi trent’anni dall’approvazione della Legge, quale pensa sia e come pensa possa raggiungersi un punto di equilibrio e una relazione virtuosa tra il terzo settore e le istituzioni? Come pensa che si possa arrivare a forme di partecipazione reale e di collaborazione tra il terzo settore e la politica che vadano al di là delle emergenze?

In parte ho già risposto a quest’ultima domanda raccontandovi il bagaglio personale che ho portato con me in Regione. Volentieri approfondisco ciò che intendevo dire rifacendomi all’esempio della Legge 82 dell’85. Alla fine del 2007 sono stata fra coloro che – intorno al dramma dell’omicidio della signora Reggiani – hanno assistito con lucida impotenza a un intero mondo che cadeva a pezzi. Sulla logica dell’emergenza (una delle malattie più gravi di cui soffriamo) è venuto giù tutto: la capacità di discernimento, la responsabilità della politica, la stessa agibilità di parola, infine la distinzione tra destra e sinistra. Tutto questo è accaduto sui rom e contro i rom, è scattata la criminalizzazione di un’intera etnia: da parte della gente, dei giornalisti, della politica, delle istituzioni. Mi sono molto interrogata, in seguito, rispetto a quei fatti, e ho capito che molte erano le responsabilità che ci avevano portato a quel punto così basso di civiltà, e alcune arrivavano anche da molto lontano.
Credo che istituzioni e terzo settore sui rom (e con i rom) abbiano un’eccezionale occasione di “riscatto”, per tornare a discernere, ad esempio, tra chi delinque e chi no, per tornare a dare il giusto nome alle cose (da quanti politici anche del centro-sinistra sentite ancora parlare di “nomadi”?), per lavorare insieme con un metodo nuovo: che veda le istituzioni nel ruolo di garanti delle decisioni e della successiva programmazione, e le associazioni – con il loro bagaglio di esperienze e competenze – riunite intorno a uno stesso tavolo senza le divisioni anche aspre del passato ma accomunate da un obiettivo.

Nel caso della legge 82 questo obiettivo si chiama superamento dei campi. Solo così, solo togliendo i rom dall’angolo delle politiche ghettizzanti e inserendoli nel contesto più largo dei diritti sociali delle persone, solo proponendo conti alla mano soluzioni alternative e più convenienti per le amministrazioni, potremo dire di aver gettato le basi di un nuovo modello di civiltà e di convivenza.
Non credo sarà facile, sarà un lavoro da portare avanti con cura e passione, ci prenderemo tutto il tempo necessario.
Intanto con piacere vi annuncio che è prossima l’istituzione ufficiale del Tavolo regionale di attuazione della “Strategia nazionale per l’inclusione dei rom e dei sinti”. È un primo passo verso la direzione giusta, un adeguamento a cui la Regione Lazio era chiamata ormai da quasi due anni, un altro ritardo che finalmente colmiamo.

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