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“Dalle statistiche sulle cause di morte ci accorgiamo che il numero dei femminicidi è inchiodato non si riesce a intaccarlo, questo vuol dire che è un fenomeno strutturale al Paese e servirebbero politiche costanti, di lungo periodo”. Con questo appello Linda Laura Sabbadini, direttore dipartimento per le statistiche sociali ed ambientali dell’Istat descrive i numeri della violenza di genere
durante il convegno “La dura realtà del femminicidio espressione del potere diseguale tra uomini e donne” organizzato dall’Enea a Roma venerdì scorso.

La stessa Sabbadini chiarisce il quadro: «Non può essere una campagna di sensibilizzazione a risolvere il problema, i femminicidi sono solo l’iceberg, la violenza contro le donne è molto più ampia». È la stessa richiesta che fanno i centri antiviolenza da anni, inascoltati, e che i finanziamenti siano costanti per quelle strutture che accolgono le donne che scappano da un legame violento e che può facilmente ucciderle.

Lo hanno ribadito lo scorso 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, uniti nella Convenzione No More, sottoposta al governo, «per richiamare le istituzioni alla loro responsabilità e agli atti dovuti, per ricordare che tra le priorità dell’agenda politica, la protezione della vita e della libertà delle donne non può essere dimenticata e disattesa». L’8 marzo lo hanno gridato, 62 centri antiviolenza e case rifugio unite nella rete Dire. Chiedono il rinnovo del Piano nazionale contro la violenza alle donne del 2010, «con garanzia di stanziamenti economici adeguati e costanti ai centri antiviolenza/case rifugio su tutto il territorio nazionale anche da parte degli enti locali e riconoscimento del livello essenziale di assistenza sociale (LIVEAS) per la violenza contro le donne» e che le regioni finanzino regolarmente i centri attraverso i Comuni e i piani di zona.

In Puglia: sulla carta tanti posti, in realtà nessuno
Maria Luisa Toto è la presidente del centro antiviolenza Renata Fonte di Lecce. Ha fatto lo sciopero della fame quest’inverno per non dover chiudere. Il centro c’è dal 1998 e da maggio 2011 i soldi garantiti dal comune non vengono più liquidati: «Come ci finanziamo? Bellissima domanda – scandisce amaramente – Sono due anni, dal 20 maggio che siamo senza quel miserabile rimborso spese per la gestione delle attività, siamo volontarie. Pur essendo l’unico centro del comune di Lecce non percepiamo nulla, ci stiamo mantenendo di tasca nostra». Del 2004 è la convenzione firmata con il comune per 10 mila euro l’anno poi dimezzati nel 2008, per un contributo di 13 euro al giorno. La convenzione è scaduta il 20 dicembre: «Il 15 febbraio mi sono incontrata con il sindaco, una stretta di mano e mi ha garantito il rinnovo – racconta Toto – e anche la liquidazione degli arretrati. Eravamo felici, ora siamo ad aprile e non c’è ancora nulla.
Nel momento in cui abbiamo inviato la rendicontazione la dirigente del Comune ci ha risposto che servivano ulteriori dettagli tra cui l’elenco delle utenti del centro, con relazione dettaglia di presa in carico. Ma non si può fare ci sono le norme sulla privacy. Le donne mi possono denunciare».

Toto racconta che «sulla carta la Puglia è piena di posti letto» in cui le donne possono rifugiarsi per un periodo in fuga dal proprio marito e compagno violento, portando con sé anche i figli «ma se una donna ha bisogno di aiuto nessuno la può accogliere. Ci sono case di accoglienza religiose ma sono posti letto per donne in difficoltà, non case rifugio». Il centro Renata Forte fa parte dell’associazione dei centri antiviolenza della Puglia, è il centro antiviolenza del piano di zona, hanno dato la disponibilità per la reperibilità h24 per il numero unico nazionale 1522 del dipartimento Pari Opportunità, fanno consulenza legale con il gratuito patrocinio, testimoniano ai processi come persone informate dei fatti, lavorano a stretto contatto con le forze dell’ordine, ma ciò non basta. Venerdì hanno accolto una donna con due figli piccoli in fuga da casa perché il marito è tornato, dopo che è stato accolto il ricorso e annullato il provvedimento di allontanamento: «Il lavoro non ci pesa, la nostra è una scelta di vita ma è una questione di rispetto dei diritti umani, voglio i fatti altrimenti si va in procura».

Messina non ha potuto nemmeno partecipare ai bandi
Il dipartimento delle Pari opportunità ha messo a bando 10 milioni di euro previsti dal piano antiviolenza del 2010 dell’allora ministra Mara Carfagna. I soldi vanno per finanziare strutture nuove e sostenere l’esistente. C’è chi però non ha nemmeno potuto partecipare, nonostante la lunga esperienza nel campo dell’assistenza alla violenza domestica, riconosciuta anche dalle istituzioni. È il centro Cedaw di Messina, l’unico della città, il più antico della Sicilia, nato nel 1989. «Fino a tre anni fa partecipavamo ai bandi – racconta la presidente Carmen Currò – ma siccome il comune deve essere partner dei progetti non abbiamo potuto perché burocraticamente non è riuscito a partecipare, siamo stati penalizzati dalla mancanza di competenza degli assessori locali.

Il comune ora è commissariato, e nessun soldo è arrivato dalla regione dalla legge 3 del 2012 “per il contrasto e la prevenzione della violenza di genere” che ha finanziato solo i distretti socio sanitari più grandi, di Palermo e Catania: «È stata una legge inutile in particolare per le aree che vivono situazioni di maggiore debolezza, e quindi per le donne che vivono in quelle zone». Anche qui si sopravvive di autofinanziamento: «viviamo con sottoscrizioni della cittadinanza, organizziamo feste ed eventi. Abbiamo tagliato il numero fisso, costava troppo, e lasciato la sede, ora ne condividiamo una con un gruppo di psicologhe».

Aquila: dove sono finiti i soldi?
Situazione emblematica quella dell’Aquila. Qui c’è il problema del terremoto che fa schizzare la violenza di genere, secondo Actionaid, ong che ha deciso di intervenire sul problema della violenza di genere in Italia con una serie di progetti a sostegno dei centri, ha misurato un aumento della violenza contro le donne del 20% l’anno scorso rispetto al 2009. Ha scritto la ricerca “Dove sono finiti i soldi per le donne de L’Aquila?” , che ricostruisce il percorso di tre milioni di euro stanziati dal governo nel 2009 e non ancora spesi. «Il decreto 39 del 2009 – racconta Rossana Scaricabarozzi – prevedeva tre milioni per i centri di ascolto, attività di sostegno alle donne e alle madri in difficoltà. La relazione tecnica del decreto specificava che i soldi li avrebbero presi da un fondo del dipartimento Pari Opportunità (e rientrano nel Piano nazionale antiviolenza, ndr).

Le donne del centro Melusina e Stefania Pezzopane, allora presidente della provincia dell’Aquila, hanno rivendicato che quei fondi andassero anche ai centri antiviolenza. Non si sono avute notizie fino al novembre 2011 quando con un’ordinanza del presidente del Consiglio se ne affidava metà alle diocesi abruzzesi, e l’altra metà a Letizia Marinelli consigliera regionale di parità». Si arriva all’anno scorso. Il ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca fa il punto sui soldi per la ricostruzione e dice che questi tre milioni sono ancora in mano al Governo, nell’agosto 2012 Gianni Chiodi, presidente della regione, emana un decreto in attuazione dell’ordinanza del 2011, in cui approva un progetto della Arcidiocesi dell’Aquila che viene bocciato dalla Corte dei conti. «Pochi soldi sarebbero stati utilizzati per i servizi, la maggior parte per acquistare gli immobili – spiega Scaricabarozzi – l’ordinanza del 2011 è ancora in vigore e questi soldi non sono ancora arrivati.

Marinelli ha presentato un progetto, a Chiodi e al Governo ma non ha ricevuto risposta». Oggi il centro antiviolenza Melusina va avanti con professionalità gratuite. Forniscono consulenza psicologica, legale e sanitaria. Chiedono una casa perché oggi sono ospitate in un container oppure che gli venga affidato un edificio pubblico da ristrutturare. Sono arrivate anche le minacce. L’avvocato Simona Giannangeli ha seguito la costituzione a parte civile della casa nel processo Tuccia, l’ex militare condannato a 8 anni in primo grado con le attenuanti generiche per aver stuprato una studentessa e averla abbandonata incosciente fuori al freddo, a febbraio dell’anno scorso. «Ha subìto minacce in seguito alla condanna – commenta Scaricabarozzi – queste minacce, oltre agli ostacoli economici, minano le attività del centro».

Dire: «Finanziamenti legati alla sensibilità degli enti locali»
Da vent’anni i centri antiviolenza italiani si sono messi in rete, per farsi forza e chiedere alla politica stanziamenti certi, racconta Titti Carrano, presidente della Rete Dire, (donne in rete contro la violenza): «Il tema del finanziamento lo portiamo avanti da sempre. La realtà è varia, ci sono centri che hanno convenzioni, altri che vivono con i bandi pubblici pubblicati dal dipartimento delle Pari Opportunità ogni anno e mezzo. I finanziamenti sono legati alla sensibilità degli enti locali perché la materia è devoluta per competenza a loro». Per Carrano, «il tema della violenza contro le donne deve essere una priorità della politica, non si può sottostimare, l’attuale situazione economica e sociale del Paese non giustifica la mancanza di risorse, i tagli ai servizi sociali hanno una forte valenza di genere».

Carrano fa la mappa dei centri: «Il Molise non ha nemmeno un centro antiviolenza, la Sicilia ha due centri a rischio chiusura, a Messina e a Catania, in Calabria a Cosenza, c’è il centro Roberta Lanzino in forte difficoltà, a Viterbo, il centro Irinna, da tempo denuncia la mancanza di fondi, poi c’è Latina. A Roma invece, Donne In genere è a rischio di sfratto, poi c’è Demetra a Lugo di Romagna, per citarne solo alcuni. Tranne alcune isole tranquille, come Lombardia, Emilia Romagna e Lazio che hanno più strutture, la situazione è di precarietà». Carrano fa notare che l’assenza di centri porta a un aggravio del bilancio pubblico, più di quanto sarebbe sostenere in modo costante la prevenzione.

Giudizio condiviso anche da Oria Gargano, presidente di Be free, associazione che opera con uno sportello in soccorso delle donne dentro il pronto soccorso dell’Ospedale San Camillo di Roma. Anche qui, la politica fa mancare l’ossigeno: «Abbiamo lo sportello dal 2009, a novembre 2011 ci è stato detto dalla regione Lazio che non c’erano i soldi per rinnovare la convezione. Per oltre un anno abbiamo lavorato gratuitamente poi, fortunatamente, abbiamo vinto un bando del ministero delle Pari opportunità, su un altro progetto, di formazione sempre presso l’ospedale». Grazie a questo progetto, non strettamente legato al pronto soccorso, l’associazione può continuare a garantire l’assistenza nel triage che ha fornito negli ultimi quattro anni. I soldi ci sono fino a novembre 2014, poi bisognerà chiederli di nuovo: «Non c’è continuità, la possibilità di potersi strutturare, si lavora con un’ansia continua. Sul piano economico, comunque bisogna tenere presente il costo sociale della violenza, che è infinito se si calcolano, ospedali, tribunali, perdita del lavoro, insegnante di sostegno per i bambini».

I casi “positivi”, Bologna e Palermo
«Abbiamo tre case rifugio, per una ventina di posti letto, sette alloggi di transizione, dove le donne possono andare dopo la casa rifugio per due anni e pagano un piccolo contributo per le spese. In più abbiamo un supporto per i minori, e una casa ’Safe’, finanziata dal dipartimento Pari opportunità, per le donne che si rivolgono alle forze dell’ordine con nove posti letto» racconta Angela Romanin, socia e operatrice della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, aperta negli anni Novanta e centro di riferimento per la città e non solo che accoglie più di 600 donne l’anno.

A Bologna c’è quello che nella maggior parte del Paese manca: case dove poter nascondere le donne che fuggono dai propri compagni violenti, magari con bambini piccoli, per riprendersi quella vita che non le appartiene più e che potrebbe scivolare loro via per sempre, uccise. In Italia i posti letto sono solo 500 contro i 5700 che raccomanda il Consiglio europeo.

Budget totale dei servizi di accoglienza della casa di Bologna: 300 mila euro l’anno. «Abbiamo un problema di finanziamento da dieci anni. Quando abbiamo aperto il comune copriva in toto le spese, poi nel tempo questi finanziamenti si sono assottigliati e adesso siamo alla metà dell’importo del servizio quindi ogni momento facciamo fund raising, paghiamo una persona apposta e comunque non ce la facciamo. Abbiamo avuto una grossa donazione nel 2010 ma fra un paio d’anni saremo a secco di nuovo». Il problema sembra la politica e solo la politica può risolverlo per Romanin: «Dovremmo essere finanziati dallo stato centrale con delle linee di finanziamento chiare oppure dai governi locali, con finanziamenti stabili, non dipendenti dalle convenzioni e quindi, siccome il centro antiviolenza è stato aperto da una giunta di sinistra o di destra, l’altro lo chiude. Se ci tagliano i finanziamenti noi cosa facciamo? Chiudiamo la porta alle donne che ci chiedono aiuto?».

C’è una situazione non omogenea: «A livello regionale ci sono case con finanziamenti sufficienti e magari hanno un importo superiore al nostro che siamo capoluogo di provincia e ci sono territori come Parma dove si pagano solo le rette degli appartamenti di ospitalità. Un centro antiviolenza fatto solo con volontariato non è assolutamente sufficiente, i centri antiviolenza sono come dei pronto soccorso che dovrebbero funzionare 24 ore su 24, costano di meno che non averli, se non li hai, la violenza di genere comunque c’è, e come dice l’Oms ha un costo sociale altissimo». «Il Molise – conclude Romanin – ha il tasso di femminicidi più alto d’Italia, il doppio rispetto alle altre regioni e non c’è nemmeno un centro antiviolenza. Non è un caso». La Casa di Bologna è anche l’unica che tiene i numeri dei femminicidi, in Italia manca anche questo, una banca dati aggiornata sul fenomeno.

L’associazione Le Onde di Palermo per la prima volta quest’anno è «ben finanziata» come racconta la sua presidente, Vittoria Messina: «Abbiamo vinto un bando del dipartimento delle Pari Opportunità della durata di due anni, per la prima volta siamo ben finanziate e con continuità. Fino ad ora abbiamo lavorato con il volontariato e con la copertura grazie ad altri progetti». Anche loro gestiscono due case rifugio con, in tutto, 14 posti letto. Ma è l’unica nota positiva, perché invece, il coordinamento con gli altri servizi territoriali, la formazione degli operatori sanitari e di polizia, gli interventi insieme ai servizi territoriali «sono fermi, è una nostra competenza che negli anni passati era stata finanziata e non lo è più, il centro è in sofferenza». Stessa situazione nei pronto soccorsi, dove Le Onde, grazie ai finanziamenti europei del programma Daphne erano riuscite ad esserci con proprie operatrici specializzate nel riconoscere la violenza di genere: «Il progetto è durato due anni ed è finito, a livello locale non c’è la possibilità di programmare interventi a lunga scadenza che abbiamo nel tempo una ricaduta, le buone prassi non vengono recepite». Comunque loro nei pronto soccorsi del Policlinico, dell’ospedale Cervello e del Civico che fanno parte della rete antiviolenza della città, ci sono sempre , da volontarie «non c’è lo sportello ma la consulenza alle operatrici sanitarie».

Sabbadini (Istat): «Segnali pesanti dalle comunità di immigrati»
Linda Laura Sabbadini dell’Istat sta lavorando alla ricerca sulla violenza contro le donne che il dipartimento Pari Opportunità guidato da Elsa Fornero le ha commissionato. La precedente e unica finora è quella del 2007 dove è emerso che oltre 14 milioni di donne italiane sono state oggetto di violenza fisica, sessuale o psicologica nella loro vita, la maggior parte di queste da parte del partner e oltre il 90% mai denunciate. La ricerca non è ancora inziata ma lei lancia già alcuni segnali di allarme: «Faremo un campione specifico sulle donne immigrate – spiega al telefono – perché abbiamo segnali pesanti sulla violenza che subiscono. Si è visto con i dati del 1522, le donne immigrate che chiedono aiuto incominciano ad emergere.

Anche nelle denunce si evidenzia la violenza. Considerando che le denunce sono molto poche ed è più difficile per una donna immigrata denunciare il proprio compagno o un proprio connazionale, perché si tratta di comunità ristrette, vuol dire che dietro c’è un sommerso ampio che deve essere indagato». Inoltre, fa notare Sabbadini nel 2006, anno durante il quale sono state realizzate le interviste della ricerca pubblicata l’anno dopo, «la presenza immigrata era minore, ora in particolare quella femminile è cresciuta». Questo tipo di ricerca che di per sé è già complessa sottolinea la direttrice dell’Istat perché «è difficile comunicare quanto si è subito, ci siamo resi conto che non potevamo usare il termine violenza o stupro quando si tratta del partner ma dovevamo oggettivare il più possibile, parlare di ferite, di calci, fare la lista delle violenze». Anche le intervistatrici devono cambiare, ogni due –tre mesi, vista la difficoltà psicologica di affrontare certi racconti, e a loro viene offerto un supporto psicologico.

Le iniziative dei privati per aiutare i centri
Ai privati quindi, rimane l’onere di finanziare la gran parte dei servizi contro la violenza di genere, e negli ultimi mesi diverse sono state le iniziative private a sostegno dei centri antiviolenza. L’autrice e conduttrice Serena Dandini gira l’Italia con Ferite a morte, uno spettacolo in cui intervengono attrici, politiche, giornaliste, studiose. Nella tappa romana (l’8 aprile) parte del ricavato della serata è andato a sostegno di quattro centri della zona regione, il centro Erinna di Viterbo, Donna Lilith di Latina, L.I.S.A. di Roma e SOStegno Donna di Frascati Cocciano. Seguirà il 12 aprile la tappa di Torino.

La giornalista e scrittrice Cristina Obber autrice del libro “Non lo faccio più” lancia in questi giorni su Facebook la campagna “Batti 5” per devolvere il 5 per mille a sostegno dei centri della propria città, basta chiedere il codice del centro da inserire nella dichiarazione dei redditi. In passato anche aziende come Avon e Groupon si sono mostrate sensibili alla tematica e hanno deciso di sostenere i centri con campagne apposite di raccolta fondi.

Laura Preite, La Stampa

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