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23 Lug, 2013

Carceri romane: “Un bollettino di guerra”

“Dignità, dignità” hanno urlato ieri mattina i detenuti della terza sezione di Regina Coeli all’arrivo del presidente della Camera Laura Boldrini. E gli agenti di polizia penitenziaria le hanno chiesto: “Torni un’altra volta presidente, ma senza preavviso: troverà un solo agente su tre piani per 250 detenuti”. Voci arrabbiate dalle carceri romane che raccontano di istituti pronti a esplodere, di attese infinite per un dentista o una lastra, di celle dove c’è ancora la fogna aperta e gli escrementi dopo una settimana vengono a galla, di poliziotti aggrediti nel tentativo di salvare una donna che vuole tagliarsi le vene.
Leggi l’articolo (da zeroviolenzadonne.it)

22 Lug, 2013

Cara Cécile, ti scrivo

Una lettera difficile, indirizzata al ministro dell’Integrazione dalla scrittrice Igiaba Scego.

A volte serve molto coraggio per dire un NO. Rosa Louise McCauley Parks ha detto il No con cui poi è passata alla storia il primo dicembre del 1955. In quei tempi le leggi Jim Crow imponevano la segregazione razziale in tutti i luoghi pubblici. Anche sull’autobus. Le prime quattro file erano per i bianchi, quelle in fondo invece per i neri. Ma se l’autobus era troppo pieno i neri avevano l’obbligo di cedere il posto ai bianchi. Pena gravi sanzioni. Quel primo dicembre chiedono a Rosa di cedere il suo posto e lei semplicemente non lo fa, dice No. E quel No ha cambiato la vita del mondo, non solo dei neri, ma di tutti noi esseri umani. Quel No ha cambiato anche la mia di vita. Ogni volta che penso alla mia laurea, al mio dottorato, ai miei libri penso a Rosa. Se non fosse stato per quel suo No io, una afrodiscendente, ora non sarei dove sono e soprattutto non avrei questa sicurezza che contradistingue la mia quotidianità.

Cara Cécile, lo so che conosci la storia di Rosa Parks. La conosciamo tutti. Ma era necessario richiamarla alla memoria ora, qui, in questo istante perché sto per chiederti una cosa molto difficile. Non so nemmeno bene come formulare questo mio pensiero, ci provo e scusami se l’ho presa un po’ alla lontana.

Io vorrei chiederti di dire anche tu un No, ovvero chiederti di lasciare l’incarico ministeriale che ti è stato assegnato.

Uff l’ho detto! L’ho scritto! Non è stato facile. Lo penso già da un po’ sai? Ma solo ora sono riuscita a visualizzare meglio questo mio pensiero. Non mi importa se diranno che questa è la “solita polemica” o che mi voglio fare pubblicità o che sono del partito di quelli controcorrente per forza. Io so solo che il mio è semplicemente un atto d’amore e un attestato di stima nei tuoi confronti. Una forma di solidarietà, a modo mio, come quella mozione del Senato votata da 260 senatori dopo le parole orrende pronunciate contro di te da Calderoli. Come tanti in questi mesi, ho amato la tua pacatezza nel rispondere agli insulti razzisti, il tuo sorriso celestiale, la cocciutaggine nel riportare a galla temi scomodi. Però, e me lo sto chiedendo in questi giorni terribili di scandali e menzogne, che senso ha la tua presenza in un governo come questo che non rispetta la nostra intelligenza? Che calpesta il diritto d’asilo come se niente fosse?

Il mio a “mia insaputa” ascoltato in questi giorni è un copione già visto. Non è giusto riproporci ogni volta la stessa minestra… riscaldata male per giunta!

L’Indignazione è palpabile.

Mi fa tremare. Mi fa piangere.

E oltre il danno a volte fa capolino anche l’incubo.

Il 4 luglio scorso è successo qualcosa che personalmente mi ha atterrito.

A Palazzo Chigi, un palazzo che hai imparato a conoscere bene in questi mesi, si è svolto l’ennesimo vertice Italia-Libia. Quel giorno i patti bilaterali tra i due paesi sono stati rafforzati e tutto questo, ahimè, sulla pelle dei richiedenti asilo che dalla Libia scappano per le continue violazioni dei diritti umani. Il ministro Abdelaziz ha promesso di “controllare” le coste libiche e di bloccare le partenze dei migranti. Controllare che significa per il ministro libico? Ce lo siamo chiesti? Una parola neutra che nasconde una realtà libica fatta di violenze, supplizi, precarietà e paura a danno dei migranti anche in questo post Gheddafi. Non te lo devo raccontare io delle donne stuprate nelle carceri libiche e degli uomini umiliati da soldati violenti. Io conosco tante ragazze passate per la Libia e che poi sono approdate in Italia con un pancione di sei mesi e tanta paura negli occhi. Molte associazioni quali Amnesty International sono preoccupate per il risvolto di questo ennesimo vertice Italia-Libia sui diritti di uomini e donne in transito presso il paese nordafricano. “La comune volontà di proseguire e rafforzare ulteriormente i rapporti bilaterali” non si trasformerà temo in più diritti per chi è costretto a fuggire da guerre, fame, siccità. Credo piuttosto il contrario.

E poi è forse giunta l’ora di dire agli italiani che è una percentuale minima quella dei migranti che fanno il viaggio per mare e che la maggior parte di loro è richiedente asilo. Dobbiamo cominciare a ripristinare la verità…

sì la verità…

Ma non solo sulla migrazione, su tutto.

A proposito di questo, mi chiedo ogni sera che fine abbia fatto la discussione sulla legge elettorale. Se un senso avevano le larghe intese era quello di fare questa benedetta legge o no? Ma non se ne parla, non si sa molto, tutto è molto nebuloso e direi accidentato.

Non credi che ci meritiamo di più tutti quanti noi?

E noi figli di migranti non ci meriteremmo uno ius soli? Si parla tanto di questo tema, ma rimane tutto sempre troppo vago. Tu, lo so, incontri ogni giorno associazioni, ragazzi, ragazze, genitori, insegnanti. Ma basta? Io temo che non ci sia una volontà politica di fare questa legge in questa legislatura. Vorrei sbagliarmi ma, ora come ora, vedo un dibattito stagnante e non sai quanto mi fa soffrire questo.

Non voglio darla vinta ai leghisti, cara Cécile. Non immaginare questo ti prego. Loro vogliono vederti fuori dai giochi, finita, Ko. Ma sai, alla fine sono loro ad essere fuori dai giochi, finiti, Ko. Quando nella città natale di Bossi vanno al suo comizio 16 persone vuol dire che sono ormai kaputt in tutti i sensi o no? Ti insultano non solo per il loro innato razzismo, ma anche perché ci provano a riavere una loro visibilità perduta attraverso te. Non ragionar (e nemmeno noi lo dovremmo fare più) di loro, ma guarda e passa. Io temo che nel futuro, invece, dovremmo affrontare un razzismo ben più subdolo rispetto a quello leghista, un razzismo che cavalcherà la lotta di classe e la crisi economica. Un razzismo che sarà portato avanti da gruppi estremisti e non solo. Dobbiamo stare attente alle Marine Le Pen nostrane, cara Cécile. Quelle dalla faccia pulita e dalla lingua affilata. Per questo che ti chiedo un atto di disubbidienza ora. È necessario… prima che sia troppo tardi.

Non fraintendermi, vederti in Tv è una gioia, sentirti parlare pure. Ma tu hai bisogno di strumenti reali per poter davvero incidere nella società. Ora come ora non ce l’hai temo.

Rosa ha disubbidito è ha cambiato il mondo, come del resto lo ha fatto Mandela e più recentemente la piccola Malala. Sono gli atti di disubbidienza che ci hanno permesso di progredire nei diritti umani.

Sento che tu hai in mano un grosso potere ora, ovvero quello di cambiare la sinistra (che ne ha proprio bisogno!) e con essa anche il paese.

Ma ti devi sottrarre ad un governo che non ha più senso di esistere. Un governo affogato da scandali e brutte figure. Suona anarchico quello che ti sto dicendo, ma non lo è. Non sono supportata da nessuna ideologia in questo momento, ma solo dal grande affetto che provo per te.

Ti vorrò bene sempre, anche se non dirai No e starai al tuo posto fino all’ultimo giorno di questa legislatura. Io capirò la tua scelta e questo non diminuirà di certo la stima che ho di te. Solo che avevo bisogno di esplicitare questo pensiero che mi tormenta il cuore già da un po’. Spero che tu capirai l’amore presente in questa lettera. Amore per te, per l’Italia, per me stessa, per il prossimo. Penso solo, e per questo ti ho scritto, che tutti noi avremmo bisogno di una politica trasparente e vicina alla nostre vite. Quella espressa dalle larghe intese semplicemente non lo è.

Con affetto, Igiaba Scego

18 Lug, 2013

Palazzo e popolo

La misogenia esagerata del professore si sposa perfettamente con il ragionamento (si fa per dire) secondo il quale una politica di orgine congolese non ha titoli per occuparsi di immigrazione così come una figura di livello istituzional-internazionale non avrebbe la caratura per ricoprire la terza carica dello Stato. P. la riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, dell’emergenza culturale, prima che politica, che ormai sale dal populismo fino alle colonne della grande stampa.
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17 Lug, 2013

Un colpo al cuore del diritto

Nella luce incerta di quella sera in Florida, il vigilante George Zimmerman non ha visto una persona, un ragazzo di nome Trayvor Martin – ha visto qualcosa che il nostro vicepresidente del Senato chiamerebbe «un orango». E naturalmente ha avuto paura, e poiché poteva farlo ha sparato. Ed è stato assolto.

Gli Stati Uniti si sono dati un presidente afroamericano, l’Italia si è data una ministra nata in Congo; ma questi segnali di progresso non indicano un’uscita dal razzismo del senso comune. Come hanno efficacemente segnalato i manifestanti di Time Square, a colori invertiti – vittima bianca, sparatore nero – il procedimento e la sentenza sarebbero stati ben altri.

Ha detto Barack Obama: siamo uno stato di diritto, la sentenza è questa, cerchiamo di capire adesso che cosa fare. Ma è proprio qui il punto: che «diritto» è quello che permette un’assoluzione del genere?

La legge della Florida riconosce la legittima difesa anche a chi abbia agito solo per la percezione del pericolo, indipendentemente dal fatto che questo pericolo fosse o meno reale. E non c’è dubbio che un ragazzo nero in un quartiere bianco nell’ora sbagliata è automaticamente percepito, almeno in certi contesti, come una minaccia: una materia fuori luogo, un’invasione (ricordiamo Henry Louis Gates Jr., luminare afroamericano di Harvard, arrestato perché di sera un poliziotto lo ha visto che cercava di aprire la porta della propria abitazione?). Ora, questa idea del rischio percepito, come stato mentale soggettivo che produce conseguenze materiali sociali, la conosciamo bene anche noi: è stata alla base di tutte le politiche securitarie che hanno cercato di fondare le politiche statuali sulla paura dell’altro (del migrante, dello «zingaro», del «clandestino», dello straniero).

Questa paura non solo percepita ma attivamente alimentata ha generato da noi il fenomeno, per fortuna molto marginale ed effimero, delle ronde leghiste e paraleghiste; e anche George Zimmerman, non un poliziotto ma un volontario che si era nominato vigilante da sé, è espressione di questo impulso a «fare da sé», a prendere in mano la legge e la sicurezza – a mettersi, con consenso della legge, fuori della logica dello stato di diritto.

Su questa paura permanente, fra l’altro, si fonda anche l’altro fattore nella morte di Trayvor Martin: l’ossessione delle armi. Nella maggior parte degli Stati Uniti, l’unico elemento di moderazione sul possesso delle armi è la norma che autorizza a portarle purché siano visibili; la Florida è uno di quegli stati che invece autorizzano il possesso di armi anche nascoste. Bisogna armarsi, dice la National Rifle Association, perché solo così ci si può difendere dagli aggressori armati che stanno dappertutto: una mentalità da assedio che si traduce, dopo l’11 settembre, in quell’ossessione del terrorismo che salda le paure private alle paranoie pubbliche. Ma nel caso di Trayvor Martin, il fatto che la pistola del suo uccisore non fosse visibile ha fatto sì che l’arma non avesse neppure una funzione deterrente, ma solo una funzione omicida.

Disse Barak Obama, subito dopo l’assassinio: se avessi un figlio maschio, Trayvor Martin avrebbe potuto essere mio figlio. Non era una trovata retorica: sta a dire che la sorte di Trayvor Martin può essere la sorte di qualunque ragazzo nero, che ogni ragazzo nero costruisce i suoi percorsi nello spazio urbano città tenendo presente il pericolo che corre.

«In queste strade», dice la madre afroamericana al figlio, in una canzone di Bruce Springsteen, «devi capire le regole; se ti ferma un poliziotto promettimi che ti comporterai educatamente e non cercherai di correre via e terrai sempre le mani bene in vista». Le mani di Trayvor Martin erano bene in vista, l’arma del suo assassino nascosta. Amadou Diallo, ammazzato dalla polizia con 41 colpi, aveva in mano un portafogli che i poliziotti hanno deciso di scambiare per un’arma. Trayvor Martin non aveva in mano neanche quello. È segno che nemmeno rispettare le regole ti protegge, che il pericolo te lo porti addosso direttamente nella tua nera «American skin». Che non ti uccidono per quello che fai, ma per quello che sei. E la legge li assolve.

Allesandro Portelli, Il Manifesto

14 Lug, 2013

Calderoli insulta Kyenge. Letta e Colle indignati

La ministra Cecile Kyenge? “Quando la vedo non posso non pensare a un orango”. Eccola l’ultima gravissima frase pronunciata dal senatore leghista Roberto Calderoli, vicepresidente di Palazzo Madama che dopo la valanga di proteste e sollevazioni dal mondo politico a quello internettiano, ha chiamato in serata la ministra per “scusarsi”. Enrico Letta è furibondo e lancia un twitter “inaccettabili oltre ogni limite le parole di Calderoli, avanti Cecile col tuo lavoro! Siamo con te”, il Pd, attraverso il suo segretario, Guglielmo Epifani, ne chiede le dimissioni mentre parte della Lega prende le distanze.
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14 Lug, 2013

Insulti alle donne: ribelliamoci insieme

Le donne che invece abitano le istituzioni ricevono un diverso trattamento, vengono umiliate, offese e sottoposte ad ogni forma di brutalità verbale. Ma sono facce della stessa medaglia, parlano il medesimo linguaggio, di fronte all’incedere senza arretramenti delle donne, nel privato come nel pubblico, nel prendersi in mano le proprie vite e nell’assumersi la responsabilità di occuparsi delle vite altrui, molti uomini reagiscono con la sola impotente risposta che conoscono: la violenza. Che sia verbale o fisica non importa. Si cerca comunque e pervicacemente l’annientamento dell’altra.
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