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11 Lug, 2013

Rosi, uccisa dall’ex denunciato per stalking

“Ora che mia figlia è morta siete venuti tutti. Ma per due anni no, per due anni di denunce no. E ora mia figlia è morta. L’avete tutti sulla coscienza. Questa non è giustizia, lui avrebbero dovuto rinchiuderlo”. La madre di Rosi Bonanno, davanti alla sua abitazione di via Occhiuta, ha sfogato così la sua rabbia, spiegando che la separazione tra i due era avvenuta proprio “perchè mia figlia era in pericolo”.
Leggi l’articolo (da zeroviolenzadonne.it)

04 Lug, 2013

Regione Lazio: un primo passo per il contrasto della violenza di genere

L’approvazione della mozione contro il femminicidio da me presentata e sottoscritta dalle consigliere del gruppo “Per il Lazio” e dai presidenti delle commissioni sanità (Rodolfo Lena) cultura (Eugenio Patanè) e sicurezza (Baldassare Favara), dimostra un grande senso di responsabilità da parte del Consiglio regionale, sensibile su un tema di grande urgenza sociale. Sono pienamente soddisfatta del risultato ottenuto, frutto di un dibattito partecipato e approfondito. La mozione era un atto doveroso nei confronti delle tante donne uccise brutalmente per mano di un uomo, in molti casi ex compagno o marito.

Di particolare rilievo l’impegno ribadito anche in aula dall’assessora alle pari opportunità Concettina Ciminiello che ha assicurato come richiesto dalla mozione, il rifinanziamento dei centri antiviolenza nel Lazio, a partire dal prossimo assestamento di bilancio, nonché la convocazione del tavolo con le associazioni e le realtà che nel nostro territorio si occupano di violenza di genere.

Il voto di oggi che arriva dopo poche settimane dall’avvio dei lavori del consiglio regionale, conferma la nostra volontà di porre il contrasto della violenza di genere tra le priorità del lavoro del consiglio e della giunta. E il dibattito che ne è seguito in aula ha confermato che i tempi sono maturi per puntare alla soluzione di un problema prima di tutto culturale sulla cui risoluzione la regione Lazio investirà energie e risorse.

02 Lug, 2013

La violenza di genere nei graffiti di Piazza Tahrir

Il fenomeno della violenza sulle donne non è nuovo nelle strade egiziane, soprattutto dopo la rivoluzione del 25 febbraio 2011. Da allora i disordini politici e la confusione all’interno degli organi di sicurezza hanno portato alla proliferazione dei crimini, compresi quelli di natura sessuale. Quello a cui si assiste ora in piazza Tahrir e negli altri luoghi di protesta sembra però andare oltre a un semplice problema di sicurezza pubblica.

A febbraio l’associazione femminista Nadhra ha pubblicato un report dettagliato sul fenomeno. Le molestie sessuali sistematiche all’interno dei luoghi di protesta, e l’atteggiamento tollerante verso questi crimini da parte delle autorità, vengono descritti come un vero e proprio tentativo di allontanare le donne dagli spazi pubblici e dalla politica. Quelli usati sono strumenti di tipo terroristico, che utilizzano la paura della violenza e della condanna sociale come armi di intimidazione.

Le reazioni da parte dei gruppi di attivisti non si sono fatte attendere. Alcuni di essi si sono repentinamente organizzati in “gruppi di scorta”, come le associazioni Tahrir bodyguard e Operation anti sexual harassment, che hanno creato veri e propri protocolli di sicurezza per le donne che desiderano partecipare alle proteste, protette dai dimostranti maschi con schemi quasi militari. Questi gruppi forniscono anche supporto psicologico alle vittime delle violenze, e stanno ora tentando di formare un fronte di protesta compatto che richiami le autorità e le forze politiche alle proprie responsabilità.

Ma la reazione non si è fatta attendere nemmeno sui muri di Piazza Tahrir, da due anni e mezzo vero e proprio luogo narrativo dei fenomeni che attraversano la lunga transizione egiziana.

Il fenomeno risale già all’epoca di dominio dei militari. Durante quel periodo vi fu il drammatico episodio di una manifestante che fu ripresa mentre veniva selvaggiamente aggredita da alcuni poliziotti in divisa. L’episodio è rimasto nella memoria di molti perché la ragazza, che inizialmente era completamente coperta dal velo e una lunga tunica (abaya), durante le percosse venne quasi denudata scoprendo il reggiseno blu che portava. Da allora “The blue bra” è diventato un simbolo della violenza delle forze di sicurezza sulle manifestanti donne.

Sono stati già molte decine i casi di stupro finora denunciati, ma si teme sia solo la punta di un iceberg. La società patriarcale egiziana tende ancora a considerare lo stupro prima di tutto come un disonore per la donna che lo subisce, e questa pressione psicologica impedisce a molte ragazze di denunciare la violenza subita.

Il fenomeno, e la coraggiosa reazione dei gruppi di manifestanti e delle associazioni femministe, rappresentano una delle molte convulsioni che attraversano la società egiziana in repentino cambiamento da due anni a questa parte; una lotta per una piccola rivoluzione all’interno della rivoluzione egiziana stessa: la rivendicazione del diritto delle donne alla presenza ideale e, soprattutto,fisica all’interno degli spazi pubblici e nella politica.

Le foto sono tratte dal post di Mona Abaza su Jadaliyya

ISPI

30 Giu, 2013

Regione Lazio: un piano contro il femminicidio

Una mozione al voto il 4 luglio: con la convenzione di Istanbul anche la Regione può fare molto.

Ogni atto legislativo che si rispetti dovrebbe avere sempre lo sguardo rivolto alla vita delle persone, ai loro bisogni, alla pienezza delle loro esistenze.

La mozione contro la violenza di genere e il femminicidio che arriva al voto del Consiglio Regionale del Lazio oggi nasce invece da due morti, due donne morte per l’esattezza: Alessandra Iacullo e Chiara Di Vita, uccise a distanza di poche ore l’una dall’altra in due quartieri diversi della città di Roma, Alessandra per mano di un uomo con cui aveva avuto una relazione, Chiara uccisa da suo marito.

“Femminicidi” sono stati, e di femminicidi parla anche la mozione che come prima firmataria ho scritto un attimo dopo aver letto quelle cronache, e che ha raccolto in un batter d’occhio sia le firme delle altre 4 consigliere donne del mio gruppo, Per il Lazio, che le firme dei presidenti delle commissioni Sanità e Politiche Sociali, Cultura e Sicurezza della Pisana.

Con la Convenzione d’Istanbul appena ratificata dal Parlamento italiano, ancora in assenza e nell’attesa di una legislazione nazionale che prenda di petto la lotta alla violenza di genere (destinandole anche le fondamentali risorse di cui necessita), sono molte le cose che la Regione Lazio presieduta da Nicola Zingaretti può e deve fare.

Intanto avviare un monitoraggio dei centri anti-violenza e delle case rifugio presenti nei nostri territori, per riconoscerne ruolo e importanza, non fargli mancare mai più i fondi in bilancio, lavorare a un loro incremento. Poi molte sono le iniziative che si possono dispiegare nel fondamentale campo della cultura, dell’informazione, della formazione per una reale parità di genere e contro la discriminazione tra uomo e donna: penso al lavoro che possiamo fare nelle scuole, coi programmi e coi progetti, al controllo che possiamo esercitare sulla pubblicità e i media, alle iniziative culturali che possiamo portare in giro per le 5 province del Lazio da qui ai prossimi 5 anni.

C’è l’ambito della repressione, chiaramente, e del sostegno alle vittime e ai loro figli (Zingaretti per esempio si è già impegnato a far sì che sia la Regione a garantire il diritto allo studio alle due figlie di Michela Fioretti, l’infermiera di Ostia uccisa dal marito il 18 aprile scorso).

Subito occorre infine aprire un dibattito sull’utilità di avviare nel Lazio un Osservatorio sulla violenza di genere e naturalmente aprire un tavolo ampio, partecipato, immediatamente operativo che metta insieme le moltissime associazioni ed esperienze di donne che da anni si battono, con fatica ed energia, contro la violenza di genere e per la democrazia, di tutte e tutti noi.

Leggi il testo della mozione

30 Giu, 2013

“Tocchi, molesti e lo chiami amore?”

Il diario di Silvia sul suo aguzzino
Delitto di via Aldini, spunta un blog in cui la vittima si sfogava per le continue violenze subite. Oggi l’autopsia e la probabile convalida del fermo

Silvia Caramazza si sentiva perseguitata, controllata, pedinata ogni giorno. Era sfinita da una violenza psicologica perpetrata da un amore ossessivo e non riuscendo, o non potendo, confidarsi con qualcuno si sfogava sul blog “Latte Versato”, aperto nel 2005. Le sue sono parole di denuncia, grida che si perdono nel web, e a leggerle adesso fanno venire i brividi pensando a come è finita la sua vita. “C’è una linea sottile tra il sospetto e la violenza, psicologica intendo. Va da se che rompere telefoni cellulari o computer faccia parte di una violenza psicologica ben definita anche penalmente. Ma anche tenere sotto pressione una persona facendole credere di essere controllata non è un’azione che può passare così, senza colpo ferire”.

Il suo post più recente è del 3 giugno il giorno prima di mettersi in viaggio per andare a Pavia ad incontrare un’amica, l’ultima persona che l’ha vista viva: a parte il suo assassino ovviamente, che dopo averla uccisa l’ha chiusa in un freezer. Nel blog parla di tutto. Dei suoi viaggi lontani, delle speranze in Dio, dell’amore  “parola abusata, bisognerebbe trovare un sinonimo” scrive  e della mancanza di coraggio nel riprendere in mano la propria vita. Ogni suo scritto, è gonfio di tristezza. Poi in poche righe dal titolo “Violenze e Violenze”, Silvia descrive ciò che la faceva stare più male. Confidenze, che solo in parte aveva rivelato alle sue amiche. Non si firma, non fa riferimenti a persone, ma descrivendo lei stessa alcune indiscrezioni uscite in questi giorni sui giornali emergono tutte le sue paure. Anzi, la sua unica paura, l’ossessione per chi le stava accanto togliendole il respiro.

“Dire a una persona ‘ti controllo il telefono e le mail tramite un investigatore’ è una pressione che a lungo andare logora e sfibra chiunque. Non sentirsi sicuri al telefono, sapere che un ex potrebbe in un futuro incerto scrivere una mail mette in allerta, anche se non si ha nulla da nascondere. Trovare telecamere in casa messe ‘per controllare se qualcuno entrà potrebbe anche essere lecito, ma se sono in casa mia e nessuno mi ha mai avvertito della loro esistenza la trovo un’intrusione altrettanto fastidiosa rispetto alle precedenti”.

Le telecamere (in realtà microspie) di cui Silvia parla sono quelle che secondo il fidanzato, Giulio Caria, principale indiziato del suo omicidio, avrebbero messo i parenti di lei per controllare la coppia ma la ragazza ha una visione diversa di come sono andate le cose, ora oggetto d’indagine da parte della squadra Mobile. Chi la sta controllando, racconta sempre Silvia, non lo fa solo tramite internet o il cellulare. “Andare a cena fuori e sentirsi dire ‘ti ho fatta seguire per sapere se quel maniaco del tuo amico ti seguivà mi pare un
arzigogolio inutile, mi hai fatta seguire? Ma siam pazzi”.

A questo punto Silvia non sa più cosa pensare, è evidente. Qualcuno la segue, non vuole che frequenti altre persone ma la donna sembra avere più timore dell’uomo che le sta accanto rispetto a un presunto terzo incomodo. Anche perché, scrive la trentanovenne concludendo il suo ultimo sfogo sul blog, “c’è un altro grado di violenza”. “Quella velatamente fisica. Se dico che non ho voglia di rapporti e mi tocchi non una, ma più volte ripetutamente, oltre a darmi un fastidiosissimo senso di repulsione, penso rientri tra le molestie sessuali. Poi mi dici che vuoi essere chiamato amore…”. Silvia chiedeva aiuto. Invano.

Alessandro Cori, La Repubblica

21 Giu, 2013

Primo studio globale sulla violenza. Una donna su tre ha subito abusi

Dati affidabili non ce n’erano, ora ci sono, e dicono che la violenza contro le donne è una questione strutturale globale. “Un problema sanitario di dimensioni epidemiche”, lo ha definito ieri il direttore generale dell`Organizzazione mondiale della sanità Margaret Chan, presentando il più grande studio mai fatto sugli abusi fisici e sessuali subiti dalle donne in tutte le regioni del pianeta.

18 Giu, 2013

L’importanza dei centri antiviolenza

Peraltro la grande nuvola grigia che ci circonda non è solo quella delle donne uccise, ma di quelle che potrebbero esserlo, oppure che vivono tutta la vita nel terrore di esserlo. Per loro solo le misure sociali e di prevenzione possono quello che la giustizia penale non può. Oggi in Italia abbiamo 127 centri, di cui solo 61 sono delle vere e proprie case-rifugio per un totale, su tutto il territorio del Paese, di 500 posti letto. Leggi l’articolo

09 Giu, 2013

Il telefono che localizza le donne vittime di violenza

Laura ha 40 anni, romana, commerciante, lascia l’ex dopo un anno di relazione turbolenta, iniziata apparentemente nei migliori di modi con attenzioni, complimenti, corteggiamenti, regali, terminata perché lui, che chiameremo Alessandro, ha cominciato a mostrare parti di sé che lei ignorava: geloso in maniera ossessiva, possessivo, critico, volgare e insolente a volte violento.
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