Top

11 Lug, 2013

No alle terre in disuso, oltre 10mila firme

Le oltre diecimila firme raccolte in meno di tre mesi ora sono in Campidoglio. A consegnarle al sindaco Ignazio Marino, le associazioni Terra!, daSud e la cooperativa Coraggio che hanno lanciato a una petizione online per chiedere al Comune che il territorio agricolo pubblico, come nel caso di Borghetto San Carlo sulla Cassia, non resti abbandonato ma utilizzato per dare lavoro ai giovani.

Una raccolta firme nata durante il presidio organizzato a maggio dalla Cooperativa Coraggio e dal Coordinamento romano per l’accesso alla terra, davanti al Borghetto San Carlo: 22 ettari di territorio agricolo sulla Giustiniana “abbandonati”, racconta Daniele Caucci di Terra!, “nonostante nel 2010 il Comune abbia stipulato un contratto col costruttore Mezzaroma per la ristrutturazione del casale entro marzo di quest’anno”.

A sostenere l’iniziativa è anche Gianluca Peciola, capogruppo Sel in assemblea capitolina, che ha chiesto “di non abbandonare il territorio agricolo romano e che sia destinato ad un utilizzo pubblico attraverso coltivazioni, orti e giardini condivisi, e diverse attività sociali e didattiche”. Mentre per Marta Bonafoni, consigliera regionale del Gruppo per il Lazio che, con il collega di Sel De Paolis ha presentato una proposta di legge affinché la Regione dia il via al censimento delle terre pubbliche per essere poi assegnate ai giovani, “offrire l’opportunità di poter utilizzare i terreni agricoli abbandonati è una delle migliori strade per uscire dalla crisi. E l’attenzione dimostrata da Marino è un buon segnale”.

Anna Rita Cillis, La Repubblica

11 Lug, 2013

Rosi, uccisa dall’ex denunciato per stalking

“Ora che mia figlia è morta siete venuti tutti. Ma per due anni no, per due anni di denunce no. E ora mia figlia è morta. L’avete tutti sulla coscienza. Questa non è giustizia, lui avrebbero dovuto rinchiuderlo”. La madre di Rosi Bonanno, davanti alla sua abitazione di via Occhiuta, ha sfogato così la sua rabbia, spiegando che la separazione tra i due era avvenuta proprio “perchè mia figlia era in pericolo”.
Leggi l’articolo (da zeroviolenzadonne.it)

10 Lug, 2013

La cultura che (r)esiste. Senza fondi

Quando si parla di cultura è impossibile non scadere nella retorica. E in questi venti anni purtroppo è stata fin troppo esasperata.

Siamo sicuramente tutti d’accordo sulle frasi classiche che accompagnano il tema da sempre: “siamo il Paese più ricco del mondo”, “viviamo in città-museo a cielo aperto”, “potremmo vivere solo di cultura e turismo” eccetera, eccetera.

In verità, benché in campagna elettorale si è tutti bravi a sottolineare temi culturali e salvaguardia del nostro patrimonio archeologico, alle parole non sono mai seguiti i fatti. Basti pensare a quell’1,1% di spesa pubblica destinata alla cultura, cifra molto bassa, circa la metà della media europea, che ci fa essere fanalino di coda in Europa.

Il Colosseo è stato solo il caso più simbolico di settimane in cui è davvero accaduto di tutto: musei italiani che chiudono di colpo per le proteste dei custodi, la Reggia di Caserta in stato di totale abbandono, i Bronzi di Riace senza una casa da 1.300 giorni, l’ultimatum dell’Unesco al governo italiano per rimarginare le ferite di Pompei, la scuola del Piccolo teatro di Milano in crisi, l’ennesimo taglio al tax credit per il cinema, le fondazioni liriche (Maggio fiorentino e Carlo Felice di Genova su tutte) sull’orlo del default.

Facile dire “puntiamo su cultura e turismo”, ma ancora dal governo non è arrivata una minima risposta scritta.

Anzi forse a pensarci bene alcune lettere sono arrivate, proprio al ministro della Cultura Massimo Bray: nei giorni del suo insediamento al Mibac, (proprio quando Letta in Tv assicurava “se ci saranno tagli a scuola e cultura mi dimetterò”) non aveva ancora controllato la cassetta della posta. Ad attenderlo c’erano 8.000 bollette della luce arretrate e mai pagate, per la modica cifra di 40 milioni.

Bray adesso si è ritrovato nella infelice posizione di fare appello alla sensibilità di Letta e Napolitano per cercare di ripianare i debiti. Urgono provvedimenti urgenti, prima di perdere tutto. Non sappiamo ancora quanto potrà essere la somma stanziata per tappare i buchi di questo disastro all’italiana. Sicuramente è possibile dire che anche quest’anno bisognerà prepararsi alle ennesime “lacrime e sangue” di tutto il comparto culturale.

Le cifre comunicate dal Mibac non fanno certo intravedere una inversione di tendenza. Basta purtroppo fare i calcoli degli investimenti tagliati: dal 2008 abbiamo perso circa un miliardo e 300 milione di fondi. Cinque anni di colpi inferti alle nostre più grandi ricchezze.

“Soluzioni subito o boicottiamo Venezia” è il grido del mondo del cinema italiano riunitosi per il Festival di Taormina. Per il cinema diventa sempre più complicato destreggiarsi tra la riduzione del tax credit (diminuito da 80 milioni a 30 per il 2014) e il taglio del Fondo Unico per lo spettacolo 2013 (decurtato del 5,2%, ovvero 72,4 milioni di euro).

Le fondazioni liriche presentano debiti per 330 milioni di euro. E se non si interviene subito potremmo dire addio al Maggio fiorentino (anche se in questi giorni si cerca di fare di tutto per scongiurarne la liquidazione). Alla finestra stanno anche altre 11 fondazioni lirico-sinfoniche che dal 1996 non hanno risposte dalla politica. Nessuno si è occupato dei nostri teatri lirici in venti anni. Nessuno. A forte rischio anche il Carlo Felice di Genova che, con perdite di 3 milioni nei sei mesi del 2013, fa fatica a pagare gli stipendi. In crisi anche i teatri stabili a cui è stato tagliato dal bilancio il 5,3% di risorse; oggi contano su 62,5 milioni di euro per 68 teatri. E l’ottimismo certo non regna: “così rischiamo di chiudere”.

I contributi pubblici 2013 per gli istituti culturali sono stati decurtati del 18% rispetto al 2009, afferma il ministero, raggiungendo 14,6 milioni di euro. Tagli e proteste anche per musei e siti culturali: in Italia sono circa cinquemila, uno ogni 10.900 abitanti secondo Confcultura. Gli istituti statali sono in tutto 420 (200 musei, 220 monumenti), in molti casi con forti problemi di personale dovute anche al blocco del turn over che incombe sul Mibac. Per il 2013 l’organico dovrebbe essere composto da 19.132 unità, ma i dipendenti in servizio sono solo 18.568.

Mancano come sempre i soldi per la manutenzione ordinaria di monumenti e siti archeologici. Il programma dei lavori pubblici infatti conterà per il 2013 su soli 47,6 milioni: il 76% in meno rispetto a 10 anni fa. Ridotte all’osso anche le disponibilità per le emergenze e le manutenzioni straordinarie (pensiamo agli ultimi terremoti in Abruzzo, Emilia e Toscana, ma anche agli allagamenti come quello che ha sommerso l’area archeologica di Sibari). Per il 2013 stanziati 27,5 milioni, oltre il 58% in meno rispetto al 2008.

Se investiamo solo poco più dell’1 per cento in cultura, dobbiamo considerare che produciamo il 5,4% della ricchezza prodotta, ovvero 75 miliardi di euro.

Sono circa un milione e quattrocento mila persone, il 5,7% degli occupati, che con la cultura ci “mangia”, secondo lo studio Symbola/Unioncamere. Tutta la “filiera della cultura”, in cui includiamo settori dell’indotto come il turismo legato alle città d’arte, il valore aggiunto prodotto dalla cultura schizza dal 5,4 al 15.3% del totale dell’economia nazionale. Insomma cifre che sottolineano un’evidenza: il valore aggiunto prodotto dalla cultura ha un effetto moltiplicatore senza eguali, attivando altri comparti dell’economia. Anche stavolta, quando passeremo dalla retorica ai fatti?

Celeste Costantino

08 Lug, 2013

“In Italia 30 mila piccoli schiavi”. L’allarme lanciato da Save The Children

Trentamila piccoli schiavi. Tutti in pericolo. Tutti senza infanzia. Tutti sotto scacco da parte di un ”padrone”. Sono una parte dei 260 mila bimbi o adolescenti italiani che lavorano. Ovvero 1 su 20: il 5,2 per cento di tutti quelli sotto i 16 anni. Lo denuncia il rapporto di Save The Children e dell’Associazione Bruno Trentin, nell’aggiornare i dati sul lavoro minorile, che erano fermi a 11 fa.

Aumenta il numero, cala l’età. Hanno tra i 7 e i 16 anni. Lavorano perché ne ha bisogno la famiglia, oppure per autofinanziarsi, oppure perché la scuola ha fallito, e se li è persi, e non se li riprenderà mai più. Sono per metà maschi e per metà femmine (queste ultime 46 per cento). Quattro su dieci lavorano in modo più o meno occasionale, gli altri no. Uno su quattro lavora per periodi lunghi fino a un anno, talvolta più di 5 ore al giorno (2 su 10). Altri di più, molto di più.

SCHIAVI
Sono i trentamila ai quali è negato del tutto il lusso dell’infanzia, dello studio, della salute, della sicurezza, della spensieratezza. E vivono da grandi, a faticare senza tutele né rispetto, a raccattare spiccioli, a farsi sfruttare, schiavizzare, maltrattare. Sono coloro che non giocano, non sognano, non ridono, non studiano, non fanno nulla di ciò che dovrebbero fare i bambini. Coloro che vivono con davanti un futuro identico al presente ed al passato, senza nulla che assomigli a un progetto, a un cambiamento, a un’occasione, a un desiderio. Nelle storie raccolte da Save, quasi tutti svolgono «un lavoro pericoloso per la salute, la sicurezza, l’integrità morale, anche di notte, in modo continuativo, senza nessuno spazio per il riposo, lo studio o il divertimento».

INTRAPPOLATI
E che lavori fanno? Il 40 per cento in attività di famiglia. Gli altri no. Minuscoli baristi, camerieri, commessi, ambulanti, sciampiste, agricoltori. Muratori. Nicola, a 12 anni, lo fanno salire sulle impalcature di 20/25 metri, «e il primo giorno avevo le vertigini e stavo svenendo, ma poi mi aggio abituato». Napoli: tanti sono lì. La maggior parte vivono al Sud. Ma ce ne sono tanti anche nel Nord Est, a Milano, a Roma..«Non ci sono i soldi per permettere ai figli di studiare -racconta un assistente sociale della Capitale- e così si incoraggia il figlio a trovare il lavoretto, per la famiglia significa tanto».

Salari non negoziabili: «Se chiedi quanto mi dai, ti mandano immediatamente via», racconta Andrea, 16 anni. «Nonostante gli orari pesantissimi, le paghe risibili e i rischi per la salute, la maggioranza di loro non hanno la consapevolezza di esser sfruttati, non sanno nemmeno cosa sia un contratto di lavoro», spiega Raffaella Milano, direttore dei programmi Italia-Europa di Save The Children.

PUSHER
La trappola si allarga quando il lavoro non si trova, «e l’opportunità dei soldi facili coinvolge i ragazzi in attività criminali». Arrivano i reclutatori. Reclutano con poco sforzo. Piccoli pusher, piccoli ladri, piccoli rapinatori crescono. La mamma non lo sa. O invece sì, talvolta.
Racconta un volontario di Napoli: «Quando non ci stanno le entrate per mangiare, e il proprietario di casa dà lo sfratto, hai voglia a dire al figlio “non a rubare”. Quello risponde “ma io un lavoro non ce l’ho”. E allora la madre si rassegna, e dice ”che ci posso fare?”». E non fa più domande. E lascia stare.

Marida Lombardo Pijola, Il Messaggero

02 Lug, 2013

La violenza di genere nei graffiti di Piazza Tahrir

Il fenomeno della violenza sulle donne non è nuovo nelle strade egiziane, soprattutto dopo la rivoluzione del 25 febbraio 2011. Da allora i disordini politici e la confusione all’interno degli organi di sicurezza hanno portato alla proliferazione dei crimini, compresi quelli di natura sessuale. Quello a cui si assiste ora in piazza Tahrir e negli altri luoghi di protesta sembra però andare oltre a un semplice problema di sicurezza pubblica.

A febbraio l’associazione femminista Nadhra ha pubblicato un report dettagliato sul fenomeno. Le molestie sessuali sistematiche all’interno dei luoghi di protesta, e l’atteggiamento tollerante verso questi crimini da parte delle autorità, vengono descritti come un vero e proprio tentativo di allontanare le donne dagli spazi pubblici e dalla politica. Quelli usati sono strumenti di tipo terroristico, che utilizzano la paura della violenza e della condanna sociale come armi di intimidazione.

Le reazioni da parte dei gruppi di attivisti non si sono fatte attendere. Alcuni di essi si sono repentinamente organizzati in “gruppi di scorta”, come le associazioni Tahrir bodyguard e Operation anti sexual harassment, che hanno creato veri e propri protocolli di sicurezza per le donne che desiderano partecipare alle proteste, protette dai dimostranti maschi con schemi quasi militari. Questi gruppi forniscono anche supporto psicologico alle vittime delle violenze, e stanno ora tentando di formare un fronte di protesta compatto che richiami le autorità e le forze politiche alle proprie responsabilità.

Ma la reazione non si è fatta attendere nemmeno sui muri di Piazza Tahrir, da due anni e mezzo vero e proprio luogo narrativo dei fenomeni che attraversano la lunga transizione egiziana.

Il fenomeno risale già all’epoca di dominio dei militari. Durante quel periodo vi fu il drammatico episodio di una manifestante che fu ripresa mentre veniva selvaggiamente aggredita da alcuni poliziotti in divisa. L’episodio è rimasto nella memoria di molti perché la ragazza, che inizialmente era completamente coperta dal velo e una lunga tunica (abaya), durante le percosse venne quasi denudata scoprendo il reggiseno blu che portava. Da allora “The blue bra” è diventato un simbolo della violenza delle forze di sicurezza sulle manifestanti donne.

Sono stati già molte decine i casi di stupro finora denunciati, ma si teme sia solo la punta di un iceberg. La società patriarcale egiziana tende ancora a considerare lo stupro prima di tutto come un disonore per la donna che lo subisce, e questa pressione psicologica impedisce a molte ragazze di denunciare la violenza subita.

Il fenomeno, e la coraggiosa reazione dei gruppi di manifestanti e delle associazioni femministe, rappresentano una delle molte convulsioni che attraversano la società egiziana in repentino cambiamento da due anni a questa parte; una lotta per una piccola rivoluzione all’interno della rivoluzione egiziana stessa: la rivendicazione del diritto delle donne alla presenza ideale e, soprattutto,fisica all’interno degli spazi pubblici e nella politica.

Le foto sono tratte dal post di Mona Abaza su Jadaliyya

ISPI

01 Lug, 2013

“Io, espulso dall’Itala dopo 30 anni, ma ormai non so più l’arabo”

“Senato’, m’hanno detto che mi riportano nel mio paese. Benissimo, allora fateme uscire da qui. Perché io sto già nel mio paese”. Fuori diluvia, eppure è estate. Ma il cortocircuito di Cherif, l’italiano clandestino, è un ossimoro ancora più efficace. Cherif ha poco più di cinquant’anni. Da trenta vive in Italia.

Leggi l’articolo