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27 Mar, 2017

“Mafia Caporale”: i 130 mila schiavi moderni d’Italia

Maria Teresa Totaro, Il Fatto Quotidiano 

Lontano dalle teste i tentacoli si toccano, ma le teste sanno. Sanno sempre tutto”. Le teste di cui parla Leonardo Palmisano nel suo ultimo libro, Mafia caporale, sono quelle di un sistema criminale complesso e spesso invisibile. Il volume racconta un sistema orizzontale che sfrutta da Nord a Sud. Un sistema radicato in ogni settore dell’economia, dall’agricoltura all’università, che non distingue tra emarginati, poveri, professionisti, laureati, adulti e bambini. Mafia caporale è un viaggio nell’Italia dimenticata, impoverita e sfruttata.

16 Feb, 2017

“Sono tutto campo e camper”

Angelo Mastrandrea, Il Manifesto

Ogni mattina, all’alba, Carmelo V. si affaccia dal suo vecchio camper ed esce per andare al lavoro. Non deve spostarsi molto, visto che ha ottenuto dalla cooperativa agricola nella quale lavora la possibilità di parcheggiare nell’orto. La sua vita è così tutta roulotte e campagna.

In questo modo, sostiene, risparmia sull’affitto di una casa e pure sul cibo, fornito dal datore di lavoro in cambio di un obolo. Non è il solo a vivere in questo modo: per risparmiare tempo e caporali, i padroni delle terre provvedono ad alloggiare i braccianti nei campi in cui sono impiegati. Eccola, la nuova frontiera dello sfruttamento: dal container alla serra e viceversa, ventiquattrore su ventiquattro.

«Ora hanno messo i faretti nelle serre, se fate un giro di notte le trovate piene di persone che raccolgono i ravanelli in mazzetti da dieci-quindici», racconta Carmelo V., unico italiano a raccogliere zucchine dalla mattina alla sera nella campagne tra i comuni di Sabaudia e San Felice Circeo, nel basso Lazio.

05 Nov, 2015

Le arance indigeste alle ‘ndrine

Le “arance no ‘ndrangheta” danno fastidio eccome. Te ne accorgi camminando tra le macerie di un capannone adibito a ricovero delle attrezzature agricole. I soliti noti, nottetempo, e mentre dal cielo cadeva tanta acqua come in un anno, hanno appiccato il fuoco e l’hanno distrutto.
L’agriturismo biologico “‘a lanterna” di Monasterace, nell’interstizio tra le province di Catanzaro e Reggio, è un modello di agricoltura etica e solidale.

Claudio Dionesalvi-Silvio Messinetti, Il Manifesto

27 Ott, 2015

Il Lazio in prima fila per il contrasto al caporalato

Le campagne del Lazio conoscono molto bene questo triste fenomeno, fatto di precarietà, insicurezza e sfruttamento. Per questo la Regione sia in prima fila nella lotta al caporalato e faccia squadra con le aziende sane e con i lavoratori per fare un passo avanti anche in questo ambito. Si tratta di una questione di civiltà che non può passare sotto gli occhi delle amministrazioni, senza sentire l’urgenza di un intervento anche normativo oltre che culturale.

C’è una proposta di legge di cui sono la prima firmataria e che ha trovato l’adesione di tanti altri Consiglieri, c’è un lavoro avviato con l’assessorato competente, ci sono le dichiarazioni del Ministro Martina: le condizioni sono favorevoli perché si avvii l’iter per l’approvazione di questa norma che serve subito per portare il Lazio in avanti sul tema dei diritti, ma soprattutto serve al mondo dell’agricoltura per un’economia sana e legale e per sconfiggere un fenomeno che provoca sfruttamento, incidenti e morti sul lavoro.

20 Ott, 2015

Caporalato, pronta una legge per l’emersione del lavoro nero in agricoltura nel Lazio

Un bracciante afgano di 36 anni precipitato durante la raccolta delle olive ad Albano e ora ricoverato con un pesante trauma cranico, un operaio romeno di Velletri arrivato in ospedale con una mano quasi tranciata di netto da una motosega. Due fatti, entrambi avvenuti lo scorso week-end in provincia di Roma, che non possono essere considerati episodi minori ma la spia di quanto andiamo dicendo da tempo: la Regione Lazio non è esente da quell’odioso fenomeno di sfruttamento del lavoro che passa sotto la voce “caporalato”.

Di fronte a una situazione sommersa di tale gravità, che – è bene sottolinearlo – oltre ai lavoratori svantaggia le imprese “sane”, noi possiamo e dobbiamo fare la nostra parte.

Da tempo insieme ad altri numerosi Consiglieri della maggioranza ho depositato una proposta di legge che intende proprio sconfiggere il caporalato in agricoltura; le tristi morti di quest’estate nel sud e nel nord Italia e la risposta immediata del ministro Martina devono adesso funzionare da stimolo anche per il Lazio, che in tempi brevissimi è in grado con l’assessorato all’Agricoltura di recepire a livello regionale il decreto nazionale e di dare finalmente il via in Consiglio all’iter di una legge che può rappresentare un’avanguardia nel panorama della legislazione regionale.

I tempi sono maturi per far fare all’agricoltura del Lazio un passo in avanti di civiltà, nel campo dei diritti dei lavoratori agricoli e dello sviluppo delle imprese legali.

16 Mag, 2014

Dopati per lavorare di più

“Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sempre, anche la domenica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la faccio più. Per questo assumo una piccola sostanza per non sentire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sentire la fatica, altrimenti per me sarebbe impossibile lavorare così tanto in campagna. Capisci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani”. Eccola qui, la nuova frontiera dello sfruttamento del lavoro migrante: gli schiavi delle campagne vengono dopati per produrre di più e non sentire la fatica.
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23 Gen, 2014

Proposta di legge contro il caporalato e il lavoro nero

“Lo sfruttamento e la negazione dei diritti dei lavoratori, immigrati e italiani, è un dato che connota drammaticamente anche la nostra regione, in molti casi direttamente collegato ad organizzazioni criminali sempre più presenti nell’intermediazione illegale e nel controllo dei flussi migratori. Lavoro nero e caporalato funestano sopratutto l’edilizia e l’ agricoltura, dove la crescente ricerca di manodopera a basso costo moltiplica il disagio sociale derivante dall’insufficienza delle politiche pubbliche rivolte all’accoglienza e alla formazione”.

È quanto si legge in una nota diramata dai consiglieri regionali Marta Bonafoni e Massimiliano Valeriani.

“Da questa emergenza – continua la nota – supportata dai numeri che dicono che su un campione di controlli su 278.268 lavoratori il 38 % è in nero, la proposta di legge depositata oggi dai consiglieri Marta Bonafoni e Massimiliano Valeriani e firmata da tutti i capogruppo di maggioranza.
Un disegno di legge che chiede la modifica della legge regionale 18 del 2007 per il contrasto e l’emersione del lavoro nero a partire dal chiedere il rispetto dei contratti collettivi e delle leggi vigenti. In particolare questa proposta contiene un elemento innovativo rappresentato dagli indici di congruità ossia parametri che definiscono il rapporto tra l’estensione territoriale dell’impresa, la qualità dei beni e dei servizi offerti dai datori di lavoro e la quantità delle ore lavorate. Uno strumento utile per mappare il territorio ed anche per indirizzare i controlli al di fuori di scelte  casuali”.

“Inoltre è urgente  – dicono i due consiglieri regionali – disegnare un quadro normativo che prevede la revoca immediata di finanziamenti  regionali e agevolazioni  per quei datori che ne usufruiscono e non rispettano l’obbligo di comunicare l’assunzione di nuovi lavoratori”.

30 Ago, 2013

Dentro il Ghetto dei braccianti africani

Da lontano non si vede. Campi sterrati, campi appena piantati, campi in maturazione. Campi dietro campi: devi arrivare a cinquanta metri per vedere le prime «case», accolte in una leggera infossatura del terreno che le nasconde alla vista, ombelico della terra: il Ghetto.

Lo chiama così chi ci abita: il Ghetto. Non «il ghetto di Foggia», il Ghetto. Un nome, non un giudizio. È una città: con le sue strade, gli assi ortogonali che di notte diventano «il corso», le piazze là dove ci sono i bidoni dell’acqua potabile, i rubinetti di quella non potabile per lavarsi. Una città che ospita in questi giorni mille e trecento persone, in larga parte giovani maschi africani che di giorno vanno a fare i braccianti nei campi in Capitanata, la seconda pianura d’Italia dopo la val Padana.

Il primo impatto è straniante. Baracche, nient’altro. Un lusso le pareti di bandone o lamiera. Di regola le colonne portanti sono di assi di legno su cui viene inchiodato compensato di risulta e vecchi cartelloni pubblicitari. All’esterno grandi plastiche a fasciare le strutture, solidamente fermate dai tubi dell’irrigazione inchiodati sul legno. Vecchi infissi ripescati in discarica, rare e piccole le finestre, la luce entra dalla porta, a volte protetta da un porticato; gran uso di tapparelle come staccionata.

È cominciato così: qualche casa colonica abbandona, occupata e riattata per la stagione. L’anno dopo accanto alle case, ecco le prime baracche, che l’inverno venivano smontate, ma già qualcuno si fermava nelle case. Poi le baracche si sono moltiplicate, molte sono abitate anche d’inverno. Dopo i fatti di Rosarno, vi si sono rifugiate 150 persone. Lo scorso dicembre c’erano 250 abitanti e, dopo la chiusura di «Emergenza Nordafrica», in maggio c’erano già 500 persone. L’anno scorso erano 900, quest’anno 1.300.

Baracche. Eppure l’uniformità del sistema di costruzione dà uno stile, una riconoscibilità a queste abitazioni molto diverse dalle baracche degli immigrati campani o abruzzesi alle porte di Roma fino agli anni ‘80 affogati nel degrado. Qui grazie alla Regione Puglia c’è l’acqua, potabile e no. I bagni chimici. La raccolta dei rifiuti; se qualche plastica viene portata per i campi via dal vento battente è perché i sacchi accuratamente chiusi non vengono tutti raccolti, e i randagi li lacerano a morsi nella notte. Due volte a settimana c’è il furgone di Emergency che fa ambulatorio (ma la Asl?). C’è persino Radio Ghetto, affiancato dalle Brigate di solidarietà attiva, che trasmette nelle moltissime lingue che si parlano in Senegal, Mali, Guinea Bissau, Costa d’Avorio, Guinea Conakry. Non c’è luce: di notte sono i punti di ritrovo a colorare di neon la strada principale. Da luglio a settembre c’è il campo di lavoro di «Io ci sto», ragazzi e non che dalle 17 alle 21 insegnano italiano e insieme ai ragazzi senegalesi e maliani riparano le biciclette, indispensabile strumento di mobilità. Due volte a settimana ci sono gli «avvocati di strada» che informano su diritti del lavoro e permessi di soggiorno. Ogni tanto compare qualche sindacalista, ma senza un luogo attrezzato, una postazione, un appuntamento fisso.

È vero, non c’è solo il Ghetto. In Capitanata sono 22mila residenti, a cui si aggiungono per la stagione della raccolta altre 16mila braccianti. Oltre agli africani. Sono gli europei (rumeni, polacchi, albanesi) che occupano i ruderi delle case coloniche o trovano altri ricoveri di necessità e a volte vengono segretari e schiavizzati. Ma il Ghetto è un’altra cosa. Un bel libro, «L’urbanistica del disprezzo», descrive come vivono in Italia i rom, e perché. Più che il disprezzo, per il Ghetto c’è invece «l’urbanistica dell’esclusione», dello sfruttamento. Lontani dalla città – quando c’è scuola un pullman garantisce almeno il collegamento con Rignano, d’estate c’è solo una corsa alle 7.40 con ritorno verso le 10 – nemmeno visibili, chi sta al Ghetto non ha che da lavorare, dormire, mangiare. C’è qualche «ristorante» che funziona anche da bar – e a volte da bordello, frequentato anche da italiani – c’è un barbiere, uno spaccio, il mercato: qualche ambulante che vende abiti usati e stoffe: soprattutto tende, grandi tende da interni che vengono drappeggiate nelle stanze per nascondere le pareti e abbellirle con cura. C’è un mercato informale, a volte illegale. Ma c’è anche solidarietà, nessuno rimane digiuno anche se non ha trovato lavoro.

Ora c’è chi vorrebbe cancellarlo. Una vergogna, dicono: buttiamolo giù. Meglio una tendopoli, ingressi controllati, mensa e polizia (e magari qualche nuovo posto di lavoro per italiani). Ma chi non ha il permesso di soggiorno sarebbe escluso, di nuovo. Di nuovo dovrebbe costruirsi una baracca nascosta. Il Ghetto è una vergogna. Sotto però c’è un’altra vergogna: quella dello sfruttamento, del caporalato che, nonostante la legge lo vieti, è più vivo che mai. Una vergogna le paghe da fame, 3.50 euro l’ora contro le 7.36 del contratto. E c’è qualche azienda che si spinge anche più in basso: domenica scorsa una squadra di undici braccianti si è sentita proporre una paga di 2.50 euro. Hanno rifiutato, e ci vuole coraggio, sono tornati al Ghetto.

Alla grettezza delle aziende si aggiunge il giogo del caporalato. I caporali, o i «capineri» (africani che ormai li hanno quasi sostituiti), tengono i contatti con le aziende, organizzano le squadre e le portano sul posto di lavoro riscuotendo 5 euro a testa, contrattano e ritirano le paghe e ci fanno una congrua cresta. Di norma strappano alle aziende 5 euro l’ora, ma al bracciante ne arriveranno 3.50. Meccanismo perfettamente descritto dal corto Caponero Capobianco (http://www.iocisto.eu/i-media/video-2/162-caponero-capobianco.html).

Se un bracciante avesse un contratto normale, potrebbe pagare un affitto e vivere a Foggia. Questo è il modo giusto per distruggere il Ghetto. Qualcuno ce la fa, una sessantina di persone almeno tornano al Ghetto solo per ritrovare gli amici. Giacché il ciclo delle culture si è ampliato (si comincia con l’orzo e il grano, poi pomodoro, zucchine e melanzane, cipolle e zucche, uva e olive, broccoletti e finocchi e carote) qualche rara azienda ha scelto di dare un contratto. Ma sotto molti dei contratti registrati all’Inps c’è un inganno: si assumono parenti e amici che non andranno mai nei campi ma riscuoteranno contributi e cassintegrazione invernale, così chi lavora davvero è truffato 2 volte.

Lavoro pulito e dignità, questo è il piccone che può distruggere il Ghetto. Ogni alternativa lascia intatto il problema e lo nasconde sotto un tappeto diverso. In quella città negata c’è «un serbatoio prezioso – dice Arcangelo Maira, sacerdote scalabriniano con un lungo percorso da migrante e missionario, direttore di Migrantes per la diocesi Manfredonia-Vieste-s.Giovanni Rotondo e animatore di Io ci sto – di energie e speranze per questi ragazzi migranti. E ci sono piccole azioni positive. Come la scuola di italiano, che dà uno strumenti indispensabile di cittadinanza. Come la ciclofficina, che mantiene in efficienza un mezzo di trasporto economico così da bypassare il caponero e andare direttamente a contrattare la giornata di lavoro. Ma soprattutto l’incontro tra giovani italiani e giovani braccianti, i cui contatti con gli italiani si limitano spesso a poliziotti, caporali, mafiosi e sfruttatori. L’incontro produce rapporti, fermenti, fiducia. I braccianti hanno l’obiettivo di mandare 50 euro al mese a casa, per i loro villaggi è uno stipendio rispettabile. Ma se avessero più giustizia, una paga decente, una casa, una famiglia, magari investirebbero qui.

Trent’anni fa noi italiani raccoglievamo pomodori per 12.000 lire l’ora, 6 euro. Oggi i braccianti ne prendono 3.50 e nei mercati il pomodoro costa tre volte di più. Perché il bracciante prende la metà e il consumatore paga il triplo?». La colpa è dell’ago della bilancia, la grande distribuzione che determina il prezzo, decide quanto comprare e da chi. I loro nomi non circolano, ma le loro azioni, qui nel Tavoliere, si vedono chiaramente.

Intanto sotto il tendalino della scuola di italiano, vicino alla bandiera della pace, si impara a scrivere, la testa china sui fogli, l’emozione di sentirsi capaci, sorrisi e risate. E, alla fine, tutti in cerchio a spizzicare taralli e fare conversazione, dalla poligamia al cibo, dalla moda a come si lavora nei campi. Su quel che è avvenuto, ad esempio, qualche settimana fa: lo scorso anno 287 braccianti hanno lavorato due mesi per la stessa azienda che, alla fine, non li ha liquidati. «Alcuni non si sono arresi – dice Arcangelo Maira – hanno deciso di fare vertenza, di combattere per i loro diritti. Abbiamo cercato i loro compagni, ormai dispersi per l’Italia, in cinquanta hanno chiamato in causa una grande azienda. Un bel segno di speranza».

Ella Baffoni, L’unità