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18 Apr, 2017

Braccia nere, contributi bianchi

Alessandro Tricarico, Il Manifesto

È passato poco più di un mese dallo sgombero del Ghetto di Rignano, anche se sembra che da queste parti non sia cambiato nulla: tutte le mattine decine di migranti sulle loro pesanti biciclette in ferro partono per andare al lavoro nei campi. Li incontriamo costeggiando gli immensi campi di grano che si inchinano al passare del vento, immagine simbolo dell’agricoltura di queste zone al pari dei suoi ulivi nodosi. Poco più avanti, quando lo sterrato lascia spazio all’asfalto, scorgiamo altri banchi di ciclisti, con telai in carbonio e tute dai colori cangianti. Ci rendiamo conto di aver appena attraversato un confine immaginario.

LA MARCIA Siamo diretti a Borgo Mezzanone, frazione del comune di Manfredonia. Oggi c’è la marcia No-Caporalato promossa da Leonardo Palmisano insieme ad un gruppo di scrittori e intellettuali. Il luogo dell’incontro è simbolico, in questa piccola frazione a vocazione agricola, oltre al Cara, esistono due ghetti divisi per provenienza: quello detto «dei bulgari» e la pista di decollo del vecchio aeroporto che ospita le baracche degli africani. In quest’ultimo la presenza di migranti provenienti dal Ghetto di Rignano è aumentata dopo lo sgombero. Come anche i furgoncini dei caporali e lo sfruttamento della prostituzione. Tra le tante sigle che hanno aderito a questa marcia troviamo Amnesty, Migrantes, Granoro e Lega Coop Puglia. Ci sono anche dei ragazzi di Libera arrivati da Torino. La richiesta principale è l’aumento di controlli da parte dell’ispettorato del lavoro, così da garantire un regolare contratto a chi realmente coltiva la terra.

STORIA DI MUSTAFA Mustafa trentenne somalo, ci racconta che nonostante sia stato assunto con un regolare contratto agricolo, gli sono state dichiarate all’Inps soltanto 5 giornate di lavoro a fronte di un mese di raccolta. Chiediamo a Mustafa come mai, lui alza le spalle in segno di resa: da queste parti funziona così. Complice anche la legge che permette alle aziende agricole di aggiornare trimestralmente il registro d’impresa. Decidendo, ad esempio, quante giornate attribuire a ciascun lavoratore solo a raccolta finita, con tutte le ingiustizie e i ricatti che ne conseguono. (Legge 28 novembre 1996, n. 608)

Infatti, secondo il segretario provinciale della Cgil Daniele Calamita «la compravendita delle giornate agricole è una pratica ancora presente. Tra le cause principali troviamo la disoccupazione dilagante che attanaglia la nostra provincia e un mancato sviluppo territoriale partecipato. Purtroppo viviamo in un clima di totale illegalità». Stando alle tabelle Inps sul lavoro agricolo, nel 2015 la percentuale di lavoratori italiani dichiarati nell’agro di Foggia aumenta con l’aumentare delle giornate lavorative, mentre il numero dei lavoratori africani diminuisce: gli italiani con meno di 10 giornate lavorative sono il 16,19%, percentuale che cresce al 66,33% quando le giornate dichiarate sono più di 51, limite minimo annuale per accedere ai sussidi. Mentre la percentuale di lavoratori stranieri passa dal 31,85% (10gg) al 5,17% (51gg).

FALSI BRACCIANTI Questi dati, però, sono facilmente confutabili passeggiando nelle campagne foggiane durante i periodi di messa a dimora delle piante stagionali o durante la raccolta. Il meccanismo è semplice e rodato: un imprenditore utilizza manodopera in nero – spesso stranieri sprovvisti di documenti – attraverso il caporale, vendendo a sua volta il requisito contributivo, al costo di 15-20 euro per giornata di lavoro, a suoi parenti o amici, oppure a estranei, questi ultimi tramite i consulenti del lavoro o dipendenti di associazioni di categoria. I finti braccianti si versano a loro volta i contributi necessari per poter ricevere l’assegno di disoccupazione, malattia, maternità e benefit familiari. Due mesi di finto lavoro seguiti da reali assegni di disoccupazione.

C’è persino chi ha creato finte aziende agricole con l’obiettivo di vendere giornate di lavoro. Tutti lo sanno e a tutti sta bene. Un dipendente di una delle principali associazioni di categoria, che preferisce restare anonimo, lo conferma: «Qui in ufficio ho la fila di persone che vorrebbero comprare le giornate di lavoro per le loro mogli o i loro figli», una pratica più che usuale, «pensa che delle circa 200 aziende che seguo, negli ultimi 2 anni solo tre hanno ricevuto dei controlli dall’ispettorato del lavoro e in nessuna di queste sono state rilevate anomalie».

Avere un ghetto dal quale attingere braccia a basso costo gioca a favore di questa logica perversa. A ciò va aggiunta la sudditanza psicologica e linguistica dei lavoratori africani, dovuta alla ghettizzazione e alla mancanza di reti relazionali al di fuori di esso. Una subordinazione molto preziosa per le aziende e i caporali che fanno affari alle loro spalle.

Radere al suolo i ghetti non serve a niente se al contempo non si riesce a capire che il fulcro del problema è all’interno dei meccanismi di assunzione. Nel 2014 Guglielmo Minervini lo aveva intuito. Con il progetto «Capo free-Ghetto out» mise a disposizione 800.000 euro da utilizzare come incentivo per le aziende che assumono lavoratori stranieri: 500 euro per ogni assunzione non inferiore a 156 giornate lavorative nel biennio oppure 300 euro per ogni assunzione sotto le 20 giornate. Gran parte di quei soldi (circa 700.000 euro), a distanza di 3 anni, sono ancora lì. Quasi nessuna impresa ha beneficiato dei fondi per paura di essere mappata e vedersi costretta, in futuro, a regolarizzare i migranti anche dopo l’esaurimento degli incentivi.

Nel frattempo, nelle due strutture messe a disposizione dalla regione, casa Sankara e masseria Arena, le giornate trascorrono lentamente e i ragazzi bivaccano in attesa che qualcuno decida di attingere alle liste di lavoro. Alcuni di loro si sono organizzati e hanno già chiamato il loro caporale, magari riducendosi lo scarno salario pattuito a causa del rischio e delle distanze che il caporale è obbligato a percorrere. Anche se per pochi soldi, meglio lavorare che vagare nel nulla. Difatti i furgoncini arrugginiti con targhe dell’Est Europa transitano tranquillamente davanti a questi centri, presidiati, nel migliore dei casi, da un paio di volontari della protezione civile.

I FALSI AMICI Anche se il ghetto fisicamente non c’è più, il sistema di accoglienza e smistamento lavorativo che si è generato al suo interno negli ultimi 15 anni ne esce indubbiamente rafforzato. Molti lavoratori migranti hanno trovato in queste baracche una società disposta ad accoglierli, a dar loro un lavoro. Spesso per i più giovani che non parlano italiano, il caporale e la maman nigeriana sono gli unici punti di riferimento. Soprattutto se in alternativa c’è la mancata accoglienza da parte di una Foggia sempre più intollerante e xenofoba, che crea così condizione di inferiorità sociale e di emarginazione.

STORIA DI KEITA Un esempio è il maliano Keita Haroun, arrivato in Italia nel 2011 e da allora residente del ghetto; in un ottimo inglese dice, con fierezza, di essere l’unico barbiere della baraccopoli. Scorre sul suo telefono le foto dei suoi clienti: teste rasate con motivi tribali disegnati in bassorilievo sul cuoio capelluto. Non parla né capisce una sola parola di italiano, questo perché in 6 anni non ha mai avuto necessità di spostarsi dal ghetto. Lì aveva un negozio che gli permetteva di vivere dignitosamente e, pagando una tangente, era sicuro che fosse l’unico a fornire quel tipo di servizio.

Lui, come tanti, in questo luogo ha trovato il proprio lavoro che nulla ha a che vedere con l’agricoltura, contribuendo alla creazione di una vera e propria borgata con tutti i tipi di servizi: dal meccanico al macellaio, dall’emporio al bar. Tutto questo in una zona franca con le mille sfumature di illegalità che ne conseguono.

16 Apr, 2017

Attraversare la violenza maschile

Venerdì 19 maggio 2017
ore 10-13,30, spazio culturale-polifunzionale MOBY DICK, via Edgardo Ferrati, 3 (Metro Garbatella)
ore 14,30-17, Spazio Coworking Millepiani, Via Nicolo Odero, 13 (Metro Garbatella)

Attraversare la violenza maschile
Esperienze, approcci e politiche nel lavoro con uomini che agiscono violenza

 

 

Hanno segnalato la loro partecipazione operatrici dei centri antiviolenza e operatori/trici dei centri per autori di violenza, ricercatrici/tori, persone impegnate nelle associazioni e nei movimenti di contrasto della violenza.

La giornata prevede un’introduzione a cura di Stefano Ciccone, di Maschile Plurale per una riflessione sulle implicazioni politiche, culturali e sugli aspetti controversi del lavoro con uomini che agiscono violenza.

Seguiranno le brevi presentazioni di due ricerche: una a cura di Alessandra Bozzoli e Maria Merelli della cooperativa “le nove” con i nuovi dati della ricerca “il lato oscuro degli uomini” sulle diverse esperienze di centri impegnati nel nostro paese, un’altra coordinata da Marco Deriu sulle percezioni del proprio cambiamento da parte di uomini autori di violenza che hanno concluso il percorso di trattamento presso il Centro LDV (Liberiamoci dalla Violenza) promosso dall’Azienda USL di Modena.

Seguiranno contributi alla discussione a partire da ciò che emerge nelle esperienze sviluppate in questi anni tra cui Alessandra Pauncz della rete di centri RELIVE, Domenico Matarozzo, Maschile plurale – Cerchio degli uomini Torino, Gabriele Lessi – Maschile Plurale – LUI Livorno Uomini Insieme, Anna Costanza Baldry- criminologa, Andrea Bernetti – CAM Roma e molti altri.

Ci confronteremo con l’esperienza dei Centri Antiviolenza e delle associazioni del femminismo il cui punto di vista, tra le altre, sarà proposto da Oria Gargano -Be Free, Vittoria Tola – UDI Nazionale, Lella Palladino- DIRe.

Alessio Miceli e Alberto Leiss, di Maschile Plurale, porteranno una riflessione sul nesso tra questi interventi e l’impegno più generale di contrasto alla violenza e di cambiamento maschile.

Interverranno inoltre rappresentanti delle istituzioni e in particolare la Consigliera della Regione Lazio Marta Bonafoni, e Giovanna Boda Capo Dipartimento presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Il dibattito sarà ovviamente aperto a tutte e tutti i partecipanti e sarà reso disponibile in diretta facebook

 

15 Apr, 2017

Le scritte razziste sui negozi gestiti da stranieri sono un segnale preoccupante

Preoccupanti le scritte fasciste apparse su alcuni negozi di Roma che incitano a boicottare gli esercizi commerciali gestiti da stranieri.
Siamo nella periferia Est della Capitale, a Tor Bella Monaca e a Torre Angela, e quel marchio razzista, a firma dell’ultradestra, è stato impresso sulle saracinesche di numerosi esercizi commerciali gestiti da cittadini provenienti dalla Cina, dalla Romania, dal Bangladesh o dall’Africa. Gente che abita e lavora in quel municipio da anni, lo stesso municipio dove, nelle ultime elezioni amministrative, la sindaca Raggi ha raggiunto l’80% dei consensi.
Un segnale che desta allarme e preoccupazione e che fa il paio con quel Governo senz’anima e senza accoglienza della sindaca Raggi e dei Cinque Stelle, che sta spalancando le porte ai peggiori impulsi di quest’epoca. Affermare di essere né di destra né di sinistra non può che produrre questi risultati

14 Apr, 2017

Naufragio con cento morti a largo della Libia

Rachele Gonnelli, IL Manifesto

Sono annegati in 97 a sole sei miglia dalla costa ovest di Tripoli, tutti migranti arrivati in Libia dall’Africa subsahariana. Erano a bordo di un grosso gommone bianco stracarico ed evidentemente danneggiato già in partenza: il portavoce della guardia costiera di Tripoli, Ayoub Qassem, ha detto all’agenzia Reuters che la base dell’imbarcazione non ha retto, si è sfasciata, portando a fondo la maggior parte delle persone a bordo, tra cui quindici tra donne e bambini.

La guardia costiera libica è riuscita a recuperare solo ventitrè naufraghi, quelli in grado di nuotare. I migranti salvati sono stati portati nella caserma della guardia costiera a Qarqaresh, alla periferia della capitale, dove – sempre secondo le dichiarazioni di Ayoub Qassem – sono stati rifocillati e curati. E nelle prossime ore probabilmente verranno trasferiti nei nuovi centri di detenzione per migranti aperti a Tajura, nei sobborghi a nord-ovest della città, che per altro sarebbero già stracolmi.

MARE DI MORTI Questi 97 morti, ufficialmente «dispersi in mare», vanno ad aggiungersi ai 664 morti o dispersi stimati dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) fino al 9 aprile scorso, quasi tutti – oltre il 90 per cento – in naufragi simili sempre lungo la rotta Libia-Italia. Oltre agli africani, per lo più in fuga dalla grave siccità che ha colpito il Sahel, si sono recentemente aggiunti verso quest’unica porta d’ingresso pericolosa e illegale verso l’Europa anche migranti che hanno fatto un percorso molto più lungo. Il portavoce dell’Oim a Roma, Flavio Di Giacomo, fa infatti notare che tra gli oltre 2.100 migranti soccorsi in mare e portati in Italia di recente, c’erano anche circa 500 bengalesi e 50 siriani.

La rotta del Mediterraneo centrale è però sempre più rischiosa. L’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, calcola che si è passati da 1, 8 morti a 3,4 ogni 100 arrivi. Ma il rischio di morire, o di essere torturato e abusato, è molto frequente anche a terra, in Libia.

MERCATO DI SCHIAVI Un recente rapporto dell’Oim – che ha avuto molto risalto sulla stampa britannica in questi giorni corredato da interviste a migranti sbarcati in Italia – parla del mercato degli schiavi in Niger e a Sahba, nel sud ovest della Libia, dove i prezzi per un uomo o una donna oscillano tra i 200 e i 250 dollari. Come già riportato dalle testimoonianze raccolte dalla ong romana anti-tratta BeFree, i migranti subsahariani sono venduti e comprati dai trafficanti libici, e le donne violentate e costrette a prostituirsi, con il supporto di migranti ghanesi o nigeriani assoltati come «kapò» nei compound di detenzione. L’ufficio libico dell’Oim calcola che in Libia i migranti in attesa di imbarcarsi per l’Europa, quasi sempre dal porto di Sabrata, sulla costa di nord-ovest, siano tra gli 800 mila e il milione.

ONG CONTRO FRONTEX Le accuse formulate due giorni fa dal direttore esecutivo dell’agenzia europea Frontex, Fabrice Leggeri, contro le ong che salvano – ha ammesso – «i due terzi dei migranti in mare con le loro navi di soccorso mentre mai come oggi quel tratto di Mediterraneo è pieno di navi pubbliche», cioè militari e le 11 di Frontex. Leggeri ha accusato però le ong umanitarie di collaborare con i trafficanti: «sappiamo di casi in cui gli scafisti hanno dato ai migranti che si imbarcavano i telefoni delle ong». La denuncia di Frontex viene definita «una fake-news» dall’imprenditore Michael Buschheuer a capo e della ong tedesca Sea Eye che nel 2016 da sola ha salvato oltre 5.500 vite umane. Mentre Riccardo Gatti, della ong spagnola Proactiva Open Arms a bordo della nave Golfo Azzurro, ha detto che nell’ultimo mese hanno subito intimidazioni e pressioni «da parte di forze di polizia e ufficiali di Frontex», saliti a bordo per frugare nei conti e negli stili di vita degli operatori.

PAESE «SICURO» L’Italia e la Ue firmano Memorandum e promettono centinaia di milioni a Tripoli e ai capitribù del Fezzan per tenersi i migranti, ma la situazione non è affatto pacificata. Si è anzi innescata una nuova escalation della guerra civile per il controllo del Fezzan e della via tra Sebha e Jufra tra la «Brigata 12», fedele al generale Haftar, e le milizie misuratine chiamate «Terza forza». Tanto che gli ambasciatori di Russia, Usa, Cina, Gb e Francia – riporta l’agenzia Nova – si dicono preoccupati.

13 Apr, 2017

Bene risoluzione a sostegno dei lavoratori Alitalia

“La Regione Lazio fa la sua doverosa parte su Alitalia, approvando in VIII Commissione una risoluzione a sostegno dei lavoratori Alitalia: un documento che fa seguito alla proposta presentata la scorsa settimana dal Comune di Fiumicino per il rilancio della compagnia aerea. In questi casi è indispensabile fare fronte comune, giocare un ruolo da protagonisti in un rapporto di leale collaborazione istituzionale, anche con il governo nazionale e con i sindacati, per provare a mettere in campo tutto ciò che è necessario per salvare i posti di lavoro e per prospettare un futuro all’azienda. In questo senso è stato preso l’impegno di coinvolgere nell’operazione di rilancio della società le aziende partecipate e controllate che operano nei settori dei trasporti, dell’ingegneria e dell’energia. E’ impensabile – concludono – accettare un piano industriale come quello sul tavolo oggi, che prevede migliaia di licenziamenti, tagli ed esternalizzazioni. Un dramma che riguarderebbe un intero settore e che non può che avere ripercussioni anche sociali soprattutto sul territorio regionale”. A dichiararlo in una nota sono Gino De Paolis, Capogruppo, Marta Bonafoni, Daniela Bianchi, Rosa Giancola e Riccardo Agostini, consiglieri Mdp alla Regione Lazio.