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Dunque da qualche ora la nostra vergogna si chiama #Aquarius.

Che se ci salissimo a bordo, sulla nostra vergogna, avrebbe i volti di 629 persone e altrettante storie da raccontare: ci sono 11 bambini piccolissimi e 7 donne incinte. Troppi uomini per stare tutti sotto coperta, quindi costretti a dormire all’addiaccio. Troppe ferite inferte dai campi libici o dalla benzina dei gommoni per farci dormire un qualsiasi tipo di sonno.
E troppo poco cibo: in dispensa la nostra vergogna conta riso, pane e caffè sufficienti ancora al massimo per due giorni.

Che poi la nostra vergogna ha la faccia di Matteo Salvini, certo. Con quel suo hashtag lanciato ieri come una fucilata – con le braccia conserte e l’”eleganza” di un gerarca – #chiudiamoiporti e la smentita di chi diceva “la spara solo, non potrà fare granché”. Però la nostra vergogna ha anche i volti di quelli che da qualche ora non sono più solo definibili suoi “alleati”, ma sono “complici”.

Dice Alessandro Sallusti che quello di Salvini è “un appello che sale dal basso”, e deve essere quel basso fatto di umori e liquidi che stanno nell’intestino e solitamente fanno vergogna.

Dice invece Aloys Vimar di Medici Senza Frontiere: “Nella vicenda dell’Aquarius troviamo la politica anteposta alla vita delle persone”.

Ecco, invece la politica dovrebbe occuparsi proprio e prima di tutto della vita delle persone.
Vergogna.

#apriamoiporti

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