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27 Set, 2017

“Siamo ad una svolta nella vicenda giudiziaria e lo dobbiamo anche a voi giornalisti”

Marina De Ghantuz Cubbe, Articolo 21

Il 27 settembre Ilaria Cucchi, Luigi Manconi e Fabio Anselmo, faranno il punto sul processo “nella stessa sala del Senato dove mostrai per la prima volta le foto di Stefano”. Lanceranno anche la terza edizione del Memorial Stefano Cucchi che si terrà il 1° ottobre a Roma. La giornata per ricordare il geometra romano morto il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare, è organizzata dall’Associazione Stefano Cucchi Onlus e inizierà al Parco degli Acquedotti con la maratona “Corri con Stefano” a cui ci si potrà iscrivere a partire dalle ore 8; l’inizio della corsa è previsto per le 10. Dalle 19 invece, il Memorial continuerà all’ex Dogana di San Lorenzo dove dal palco interverranno, tra gli altri, l’attrice Jasmine Trinca (che interpreterà Ilaria nel nuovo film di Alessio Cremonini), i cantanti Alessandro Mannarino e Piotta, il gruppo Assalti Frontali, ma anche Chef Rubio e il regista del film Diaz, Daniele Vicari.

Sono passati 8 anni e questa è la terza edizione del Memorial Stefano Cucchi. Qual è lo spirito con cui arrivi al primo ottobre?

“Con uno spirito molto positivo, di speranza. Ed è un segnale che mi piace lanciare a tutti quelli che pensano di non potercela fare. La nostra vicenda deve necessariamente insegnare qualcosa, deve insegnare che in fondo non bisogna mai smettere di credere nella giustizia. Sì è vero ci sono voluti otto anni, tanto dolore, tanti sacrifici, tanto tempo perso, tante energie. Ma adesso possiamo dire che ce l’abbiamo fatta. Questo è il senso del Memorial: un momento di unione, di condivisione. Ci piace ricordare Stefano non nel giorno della sua morte, non in quello del suo arresto, ma in quello del suo compleanno in modo da poterlo ricordare con un sorriso. Mi butto alle spalle tutte le mattine in cui sono andata in tribunale e mi sono chiesta se un processo era quello che Stefano volesse: oggi io vedo Stefano che sorride”.

La vicenda giudiziaria è ad un momento cruciale. Quali sono i risultati secondo te ottenuti fino ad adesso e cosa manca ancora?

“È la prima volta che io sono così positiva e serena, se di serenità si può parlare, proprio perché siamo in una fase completamente diversa da quella che ci stiamo lasciando alle spalle. Il 13 ottobre inizierà il cosiddetto processo bis per la morte di mio fratello e questa volta sarà un processo che farà in modo che in quelle aule di giustizia possa entrare la verità. Semplicemente la verità che è stata nascosta per 8 lunghissimi anni, taciuta, consentendo che qualcun altro affrontasse un processo al posto dei veri responsabili di quella morte. Dalla mia parte adesso ci sono gli agenti di polizia penitenziaria imputati nel vecchio processo. Ci sarà CittadinanzAttiva e il Comune di Roma come è avvenuto in precedenza. Ma soprattutto le persone, e sono tantissime, che non hanno mai smesso di credere che si poteva ottenere giustizia per Stefano”.
A pochi giorni dall’Assemblea nazionale di Articolo21, qual è il significato della “scorta mediatica” che in questi anni si è creata intorno al caso?

“Innanzitutto sia io sia Fabio Anselmo siamo onorati di poter intervenire alla vostra Assemblea, quindi in un momento così importante del vostro lavoro. Non potrò mai dimenticare quel giorno di otto anni fa quando fui costretta mio malgrado a rendere pubbliche in una conferenza stampa le foto del corpo martoriato di mio fratello. Davanti a noi, davanti a me che quelle foto non le avevo ancora guardate, c’eravate voi giornalisti. Avete aperto quel dossier e ho capito che quello era il momento della svolta: ho capito che ormai non erano soltanto le mie parole ma quello che mio fratello aveva dovuto subire era chiaro ed evidente nei segni che il suo corpo portava su di sé. Devo dire che, se non ci fosse stato il cosiddetto processo mediatico e senza l’attenzione dei giornalisti, quasi sicuramente non sarebbe esistito il processo Cucchi nelle aule di giustizia. È triste dirlo ma è così”.

Quella per tuo fratello è diventata da parte tua anche una battaglia per i diritti umani

“Il senso dell’associazione è proprio questo. Dopo aver vissuto questa drammatica vicenda, dopo quei maledetti sei giorni che portarono Stefano a morire, ma anche dopo quello che lui ha subito in questi anni, necessariamente le nostre vite sono cambiate per sempre. Stefano era un ultimo, per questo è andata così. Di ultimi ce ne sono purtroppo tanti di cui non interessa nulla a nessuno e siccome umanamente io ho bisogno di dare un senso a questo dolore e a questo vissuto, mi piace pensare che nel nome e tramite Stefano, si possa parlare di tutti gli altri Stefano che subiscono soprusi e che rischiano di essere dimenticati. Sempre più capisco il sogno del mio migliore amico Paolo, un missionario a cui Stefano disse che stava bene, che io dovevo andare avanti, che probabilmente non sarebbe mai arrivata la giustizia, ma che era giusto farlo per tutti gli altri come lui”.

21 Set, 2017

Modernità delle gabbie. Il cuore è uno zingaro

Luigi Manconi, Il Manifesto

«Non sono razzista, ma…». Si tenga conto che oggi l’etichetta «zingaro» (o, più diffusamente, «rom») risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. Dal romanticismo magico dell’epopea gitana che sbanca il festival di Sanremo alla consapevolezza di Jannacci e De André

 

Follonica, mattina del 23 febbraio 2017. Nel retro del supermercato Lidl, due donne di etnia rom vengono sorprese da tre dipendenti mentre frugano tra i cartoni da smaltire. La scena successiva: le due donne sono state rinchiuse all’interno di una gabbia che contiene altri cassonetti bianchi pieni di cartoni. Piangono, gridano a voce altissima, sbattono mani e braccia contro l’inferriata, cercando di forzarla. Fuori dalla gabbia, due dei dipendenti ridono rumorosamente e uno, con voce stentorea, si rivolge alle donne. Ripete più volte che non si può entrare nell’angolo dei rifiuti della Lidl: «No, non si può entrare».

A UN TRATTO, l’eccesso di riso lo fa tossire. Un terzo addetto, nel frattempo, registra tutto col telefonino e si arrampica sulla sommità della gabbia per riprendere la scena dall’alto (successivamente due dei dipendenti verranno licenziati dall’azienda tedesca).

 

Non si può escludere che dietro il mancato scandalo per l’«ingabbiamento» di due persone, come è avvenuto a Follonica, vi possa essere un oscuro e temibile retropensiero. Se la gran parte delle persone intervistate nei giorni successivi tenderà a ridimensionare l’episodio, definendolo «una burlonata» attribuita a «ragazzi» (definiti sempre ed esclusivamente con tale termine), forse c’è di che riflettere.

I due tratti che abitualmente vengono attribuiti da una parte rilevante del senso comune a rom e sinti – una certa ferinità e una sostanziale irriducibilità alla vita sociale – possono suggerire come sola forma di disciplinamento la soggezione in cattività. Dunque, l’idea che quel tipo di etnia possa/debba essere «chiusa in gabbia».

Si tenga conto che oggi l’etichetta «zingaro» (o, più diffusamente, «rom») risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. A seguire, l’elenco dei «nemici» subisce variazioni continue dovute in genere all’influenza di fatti di cronaca che abbiano avuto una eco particolare e nei primi posti si alternano soggetti nazionali o regionali, destinatari, di volta in volta, dell’ostilità sociale.

Non si dimentichi, infatti, che almeno tre gruppi regionali italiani si sono trovati, nell’ultimo mezzo secolo, a contendersi il primato, o almeno le piazze d’onore, in questa speciale competizione: «i siciliani», «i sardi», «i calabresi». Ma il dato costante è che «gli zingari», persino nei momenti di maggiore successo degli «albanesi» e dei «romeni» (corrispondenti all’incremento dei flussi di queste nazionalità verso l’Italia), hanno sempre saldamente occupato il primo posto nel podio (dell’odio).

EPPURE non è stato sempre così. A partire dalla questione, tutt’altro che insignificante, del nome. Qui si è utilizzato e si continuerà a utilizzare il termine «zingaro» in modo neutrale perché fino a una certa fase l’accezione positiva prevaleva nettamente su quella critica. Oggi le cose sono cambiate. E quel termine «zingaro» viene rifiutato innanzitutto dalle comunità rom e sinti (alle quali vanno aggiunte alcune centinaia di caminanti, presenti prevalentemente nella zona di Noto, in Sicilia) e dalle associazioni che ne tutelano i diritti. Si preferisce, cioè, il ricorso alle parole che segnalano l’origine etnica.

Ma, come si è detto, non è stato sempre così.

QUASI MEZZO SECOLO FA, al festival di Sanremo del 1969, trionfava la canzone Zingara, sontuosamente interpretata da Iva Zanicchi (e da Bobby Solo). Appena due anni dopo Nada e Nicola di Bari portavano al successo Il cuore è uno zingaro. Dunque, il maggiore evento nazional-popolare del nostro paese, dove si riflettono la mentalità condivisa e i mutamenti culturali e del costume, celebra l’epopea gitana.

Già nel 1968, Enzo Jannacci portava al secondo turno di Canzonissima Gli zingari: e cantava di «gente bizzarra, svilita», che un giorno arriva di fronte al mare. E solo «il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente ridotta, sfinita. Parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d’amore, di bene e di male».

Poi, nel 1971, Mario Barbaja nella ballata Il re e lo zingaro ripropone la figura del gitano come eroe di un irriducibile nomadismo verso la libertà. E nel 1976 Claudio Lolli interpreta Ho visto anche degli zingari felici, in cui i protagonisti giocano un ruolo politico-profetico all’interno di un racconto dallo stile espressivo-visionario. E, ancora, nel 1978, Fabrizio De André canta Sally, Francesco De Gregori Due zingari e Umberto Tozzi Zingaro.

AL PERSONAGGIO del gitano si continuano ad attribuire tratti fiabeschi: lo zingaro sembra capace di raggiungere quelle mete dell’interiorità, della libertà, della consonanza con la natura, il cui senso per le comunità sedentarie e confinate nelle città moderne è smarrito. E c’è un verso, nella canzone di Tozzi, che, letto ora, appare davvero “scandaloso”: «La scuola ti ruba i figli e non sono più tuoi».

SONO PAROLE che oggi nessuno potrebbe permettersi. Frequentare la scuola pubblica è unanimemente considerata la principale, forse l’unica forma di integrazione che possa consentire alle minoranze rom e sinti una convivenza pacifica con gli altri residenti nel territorio e un progressivo accesso al sistema della cittadinanza. E dunque, quella frase – se fosse riproposta ai giorni nostri – suonerebbe come l’affermazione di un relativismo radicale fondato su una sorta di mito del buon selvaggio. Un mito indirizzato contro il progresso e contro le sovrastrutture prodotte dai processi di civilizzazione («la scuola che ruba i figli»). Al di là del fatto che si tratta di un’assoluta scempiaggine, è indubbio che chi oggi ripetesse quell’affermazione, e violasse l’obbligo scolastico per i propri figli, si troverebbe (dovrebbe trovarsi) i carabinieri alla porta.

MA, A PRESCINDERE da questi accenti estremi, ciò che conta è che fino a non molti anni fa, nell’immaginario culturale e sociale del nostro paese, la figura dello zingaro e della zingara abbia conservato quei connotati di romanticismo magico e di vitalismo naturalistico di cui si è detto.

E la parola «zingaro», con questa forza evocativa, sopravviverà a lungo nella musica leggera italiana così come nella letteratura, specie in quella popolare.

 

Non solo. Nel 1995 la Mattel lancerà sul mercato Esmeralda, la bambola zingara della linea di Barbie, parallelamente al successo mondiale del film Disney Il gobbo di Notre Dame.

E in Italia, per anni (dal 1996 fino al 2002), il programma televisivo preserale con i maggiori indici di ascolto vide come protagonista Cloris Brosca nei panni della Zingara, che leggeva le carte e prediceva il futuro.

In tutte queste rappresentazioni, lo zingaro e la zingara trasmettono un’immagine che evoca, per un verso, uno stile di vita fuori da regole e convenzioni sociali e, per un altro, ambientazioni agresti e scenari esotici.

Insomma, lo zingaro è il prototipo di un eroe premoderno e preindustriale, ispirato a valori forti e incontaminati, che rimandano allo spirito di una comunità chiusa, alla contrapposizione natura-cultura e al conflitto perenne tra integrazione e ribellione. E, invece, decenni dopo, le ultime tracce che se ne ritrovano nella musica leggera sembrano registrare un drastico cambiamento di clima e di senso comune.

CHI PERCEPISCE tutto questo e le radici profonde, anche sovranazionali e geopolitiche, che lo determinano è Fabrizio De André che, nella splendida Khorakhané, canta: «I figli cadevano dal calendario/ Jugoslavia Polonia Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via». E questo porta a scoprire, in mezzo a noi, che «in un buio di giostre in disuso/ qualche rom si è fermato italiano/ come un rame a imbrunire su un muro». E il paesaggio sociale e urbano ne risulta segnato: «Il cuore rallenta la testa cammina/ in quel pozzo di piscio e cemento/ a quel campo strappato dal vento/ a forza di essere vento».

E così questo ribaltamento dell’antico stereotipo porta all’acutizzarsi del pregiudizio e a una crescente ostilità, cantata dai Punkreas, nel 2000, con questi versi sarcastici: «Chiudete le finestre sbarrate le persiane/ pericolo in città di nuovo queste carovane/ nomadi gitani con abiti sfarzosi/ si nota a prima vista che son pericolosi/ cara io vado dai vicini tu chiudi con la chiave e porta su i bambini/ se fanno i capricciosi e non vogliono dormire/ racconta che gli zingari li vengono a rapire».

COME SI VEDE a questo punto e a questa data, la catastrofe sociale e culturale si è già consumata.

E così nel 2015, un giovane autore, Calcutta, scrive: «Suona una fisarmonica/ fiamme nel campo rom» e nel 2016 un gruppo rock, gli Zen Circus, nel brano Zingara (Il cattivista) dà ironicamente espressione a un diffuso sentimento di intolleranza: «Zingara che cazzo vuoi io so che cosa fai/ stringo il portafogli vai via o chiamo la polizia/ ma quanto puzzerai tu non ti lavi mai/ zingara ci fosse lui vi bruciava tutti sai/ se siete ancora qui è colpa dei buonisti».

Insomma si registra una sorta di aggiornamento, in chiave di cronaca nera e di stigmatizzazione criminale, dell’immagine popolare dello zingaro.

Tratto da un capitolo di «Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura», di Luigi Manconi e Federica Resta, Feltrinelli editore

19 Set, 2017

Il Pd rischia di perdersi e la sinistra è all’angolo. Ripartiamo dallo Ius soli

Giuliano Pisapia, La Repubblica

Caro Direttore, non è una piccola cosa: l’approvazione dello Ius soli sarebbe un atto di civiltà contro la resa allo spirito dei tempi. Una risposta non rassegnata al disorientamento e alla paura. La prova che siamo capaci di riprendere quell’egemonia culturale che la sinistra, l’associazionismo laico e cattolico, il civismo e la tradizione liberale, sembrano aver smarrito. Per questo lo Ius soli è una grande cose. Per questo è da qui che vogliamo ripartire.

15 Mag, 2017

La scala delle gravità e il senso del rigetto

di Mimmo Cortese, Comune-info

Le dichiarazioni di Debora Serracchiani, dopo l’orribile stupro di una ragazza triestina di 17 anni, fanno rabbrividire. Questo delitto diventa “socialmente e moralmente ancor più inaccettabile” perché è stato commesso da un profugo iracheno, dice la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia.
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Evidentemente, non essendo sicura di essere stata sufficientemente chiara, dopo due righe cerca di spiegarsi meglio rincarando la dose: “Riesco a capire – aggiunge – il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi” rompendo il “patto di accoglienza” con il nostro paese.
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Queste scellerate e inaccettabili parole vanno lette tutte assieme, il razzismo è coniugato strettamente alla sua istigazione attraverso una parola precisa: il “rigetto”. Il rigetto è “verso gli individui”, cioè verso persone in carne ed ossa. Non è l’atto odioso l’obbiettivo, è quella persona che l’ha commesso. Ma, e qui la gravità se possibile sprofonda, quella speciale persona è talmente speciale da non avere né un nome, né un cognome. Quella persona è lo straniero, il profugo. Che si permette addirittura di sbagliare, di commettere un delitto.
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Non so come si possano definire allora quelle parole, se non come un solleticare, e sollecitare, gli istinti più ciechi e violenti in circolazione nel nostro paese.
Ci sarebbe stato da augurarsi, a stretto giro di posta, una dichiarazione di scuse e di ammissione di un grave errore. Invece è arrivato un laconico e glaciale tweet senza nessuna scusa, nessun dispiacere, nessun chiaro rigetto di quelle oscene e violente parole: gli stupri sono tutti uguali ma – viene anzi ribadito – questo è peggio di altri, la rottura di quel patto di cui sopra lo certifica. Non una parola infine sulla “comprensione” del “senso di rigetto”, evidentemente ribadito.
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Affermare la maggiore gravità di un delitto, nel caso in cui a commetterlo sia un profugo o uno straniero, è un atto di grave discriminazione che internazionalmente si definisce xenofobia, indissolubilmente legata al razzismo quando lo straniero ha caratteri somatici ben identificabili e proviene da terre lontane. Affermare di “capire il senso di rigetto” verso lo straniero è una chiara istigazione al razzismo e alle pieghe violente e intolleranti che sempre più spesso si manifestano nel nostro paese.
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Ci sarebbe stato da aspettarsi, a questo punto, che il suo partito prendesse nettamente le distanze invitandola ad un gesto pubblico significativo. Ma, fino ad ora, un inquietante silenzio occupa l’agorà.
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Eppure, nonostante quanto scritto e detto sia già sufficientemente e tristemente chiaro, c’è ancora un aspetto che va considerato. Un aspetto da cui, forse, discende questo modo di parlare, questo singolare approccio alla lingua.
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Alcuni mesi fa Renzi, nel pieno delle polemiche legate alla sua famiglia, affermò: “Se mio padre è colpevole merita una pena doppia“. Solo in apparenza questo genere di affermazioni potrebbero essere definite delle semplici e innocue spavalderie da “bar”.
Il segretario del PD ha sempre cercato, usando questo linguaggio, di essere percepito come “popolare”, come colui che scende dallo scranno dorato e distante del politico e parla con le espressioni della gente. Chiaro e semplice!
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Non rendendosi conto che, seguendo questa strada, l’esito più probabile sarebbe stato confondere la chiarezza con la grossolanità e la semplicità con la superficialità. Non rendendosi conto che la chiarezza e la semplicità non hanno alcuna contiguità con il linguaggio che si manifesta nel cosiddetto buon senso del chiacchierare quotidiano, men che meno con le parole che accompagnano la reazione istintiva alle cose che ci succedono. Chiarezza e semplicità sono il frutto del lavoro lungo e difficile per arrivare al cuore di ogni questione. Sono il frutto della riflessione approfondita, delle domande indagate in ogni loro piega, delle verifiche sulle conseguenze delle scelte intraprese. Sono il frutto di ciò che si definisce senso della responsabilità.
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In realtà l’uso di questo linguaggio ha delle conseguenze ancora più serie. Quando diventa sistematico e perdura nel tempo, soprattutto quando arriva ed emana dai centri del potere, si sedimenta sempre nel profondo, predispone e orienta le persone a un modo di pensare, prefigura sempre lo sviluppo di una cultura.
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Chiedere l’eventuale pena doppia, addirittura con l’enormità di farlo per il proprio padre, non è stata solo una boutade e non ha mostrato affatto – come voleva essere nei suoi intenti – un rigore e un senso dell’etica più profondo, quella richiesta ha detto molto invece sul concetto di giustizia dell’ex premier. Ha detto di un giustizialismo mascherato e veicolato dal “sentire comune” del momento, come ricordava il ministro Minniti qualche giorno fa. Pena doppia! Dando per implicito, come messaggio di fondo, che le regole del diritto definiscono i rapporti e la convivenza solo se placano, subito, il nostro dolore, la nostra urgenza.

E’ in questo filone, credo, che si possono interpretare anche le parole di Serracchiani, il suo linguaggio. Allo stesso modo, sia pure in maniera più greve e incomparabile, rispetto alle capacità comunicative del segretario, il punto sul quale va a concentrarsi è sempre lo stesso, è il concetto di diritto, di giustizia.
Lo stupro commesso da un profugo rifugiatosi nel nostro paese, dice la presidente del Friuli Venezia Giulia, è più grave perché rompe il patto di accoglienza. E’ più grave dello stupro commesso dal marito? Quel patto d’amore ha un valore minore? E’ più grave dello stupro commesso da un branco di italiani? Il patto di civiltà ha meno valore? Quella moglie e quella ragazza avrebbero una minore ferita, una minore offesa, minore dolore, minore vergogna, minore disperazione in quelle circostanze? Naturalmente no. Ma “oggi” il patto di accoglienza sommuove e confonde la pubblica opinione.La scala delle gravità è una variabile dei tempi.

13 Mag, 2017

Morire in periferia, tra esclusione sociale e barbarie mediatica

Emiliano Viccaro, DinamoPress

Sono passate 72 ore dall’assassinio delle tre sorelle rom, vicino Centocelle, e la notizia è già precipitata negli inferi delle home page, sotto le rubriche degli spettacoli e delle curiosità. Sotto il nuovo singolo di Fedez o il video del “promesso sposo bendato”, caduto in un “divertentissimo scherzo”. Le testate liberal, seguendo l’ombra delle prime ipotesi degli investigatori, decidono che l’eventuale “vendetta tra rom” derubrica il livello di orrore – e quindi di notiziabilità – dell’omicidio. Non si tratterebbe di “razzismo”, ma di “regolamento di conti tra zingari”. Poca roba.

Proviamo a riavvolgere il nastro della copertura mediatica.

Mercoledì 10 maggio, tarda mattinata. I primi giornalisti che arrivano sul posto cercano il bottino del “quartiere degradato” e del decoro che non c’è. Tampinano i curiosi presenti, affacciati alle finestre o all’ingresso del centro commerciale Primavera, inaugurato nel 2003 tra polemiche e scontri con i residenti per una variazione urbanistica in corso d’opera. I reporter imboccano gli intervistati sui rom che rubano, saccheggiano, sporcano. Qualcuno parla di furti generici, altri di vetri rotti “non si sa da chi”, altri ancora si soffermano sui problemi legati alla raccolta dei rifiuti da parte dell’Ama. Alcuni, temerari, raccontano di chiacchiere mattutine e questue pacifiche “con gli zingari che abitavano nel camper”.

Nel primo servizio di Sky, la geografia viene piegata alla narrazione: “Siamo nel cuore di Centocelle, a poca distanza dal campo rom di via Salviati”. Siamo a Casilino 23 (da poco Villa De Sanctis, dall’omonimo parco che si estende tra via Casilina e via dei Gordiani), Centocelle inizia lì davanti e parliamo di almeno tre chilometri e due quartieri di mezzo, Collatino e Tor Sapienza, da via Salviati.

Nel pomeriggio, la stessa giornalista si fa immortalare in un lungo piano sequenza all’ingresso del campo rom attrezzato di via dei Gordiani. L’obiettivo si sofferma sulla catasta di rifiuti che assedia la fila di contenitori dell’Ama. Sguardo in camera e voce grave: “Siamo a pochi metri dal luogo del delitto, all’ingresso del campo tanta spazzatura e poca voglia di parlare”. Siamo invece a quasi un chilometro dal luogo del delitto.

Su questa linea si muove tutta la stampa (escluso il Manifesto) e le tv, che confondono toponomastica e collocazione dei quartieri, insediamenti abusivi e campi attrezzati, omettendo fino in fondo i dati ufficiali sul numero e il tipo di reati in città. Come se fosse impossibile restare agganciati senza speculazioni al fatto in sé, all’emozione della tragedia, all’assurdo destino – accettato come normalità – di una famiglia di undici persone costrette a vivere e a morire in un camper di un parcheggio qualsiasi di una periferia qualsiasi.

Le redazioni ridotte a fortini della “sicurezza pubblica” hanno pronti in canna i due colpi per affondare qualsiasi diserzione critica sul modello di città e di accoglienza, sulle politiche sociali. Se si apre la pista dell’aggressione “esterna”, è pronto il plastico della “reazione esasperata” del branco/balordi per conto del quartiere degradato, invaso dai rom; nell’ipotesi di una “vendetta tra clan”, si disegna il quadro antropologico del deviante “di natura”, si srotola la mappa della “città illegale” ostile allo Stato, alle regole, alla buona convivenza con i cittadini sani, bianchi e italici.

Nessuno o quasi ha raccontato il quartiere dove è avvenuta la strage. Casilino 23 nasce negli anni Settanta, in una zona cuscinetto tra Centocelle e Torpignattara. Zona di edilizia sovvenzionata e di cooperative, rosse e bianche, che iniziano a costruire in quel lembo di terra lambito dai borghetti dei baraccati della vicina Villa Gordiani. “Nel costruire il suo gioco urbanistico – raccontano gli architetti di strada Rossella Marchini e Antonello Sotgia – Ludovico Quaroni ha pensato ai bastoncini dello Shanghai. Una volta gettati sul terreno, la punta di quelle case guarda a un centro indefinito, lontano, che ‘tiene’ la loro disposizione a raggiera”.

Dall’inizio degli anni Ottanta si sviluppa un piano di servizi urbanistici integrati, tra residenziale “di qualità”, spazi verdi, strutture sportive, servizi, mercato, scuole, oltre a due luoghi inventati dal basso da un ricco tessuto sociale e politico. Al confine estremo su viale della Primavera, l’ex Casale Falchetti, occupato nella primavera del 1999, testimone ideale del vicinissimo Teatro di Centocelle, nato nel 1972 in seguito all’occupazione delle limitrofe case di via Carpineto. Un vecchio garage in disuso viene scelto come spazio scenico e, nel giro di pochi anni, il teatro entra di diritto nel circuito culturale alternativo, ospitando un memorabile spettacolo di Dario Fo.

Al centro del quartiere, nel 1988, viene occupato il Casale Garibaldi e riqualificata l’area verde circostante, fino ad allora residuo di una vecchia struttura rurale (dal nome dell’ubiquo e discusso generale che lì avrebbe soggiornato…), finita in un progetto di ristrutturazione della Provincia di Roma, annunciato e mai concluso. Vinta la battaglia della riqualificazione, a carico dell’amministrazione pubblica, lo spazio si sviluppa attraverso un progetto sociale e culturale promosso da un consorzio di associazioni. Questi luoghi, insieme alla straordinaria esperienza della scuola Iqbal Masih (diretta dalla compianta Simonetta Salacone) e alle connessioni con i comitati di genitori, insegnanti creativi, gruppi informali, singoli, centri sociali limitrofi, costruiscono una trama solidale non indifferente. In grado, nel corso degli ultimi venti anni, di intraprendere diversi percorsi di inclusione, conoscenza, contaminazione con gli insediamenti rom di Casilino 700 e 900, prima, e di quelli di via dei Gordiani, fino ad oggi.

Per essere chiari: da queste parti non c’è nessuna isola felice, nessuna comunità elettiva estranea alle contraddizioni e ai problemi di una città come Roma, alle sue pulsioni razziste, al suo egoismo di ritorno. La nascita del centro commerciale, una sorta di galleria scavata sotto la pancia del quartiere, non solo ha ingolfato la zona di traffico e di consumo compulsivo, ma ha generato un residuo sociale di comitive di muretto, coatte, para-ultras, muscolari, che a volte giocano senza timore con i simboli dell’orrore. A partire da queste contraddizioni, si conferma un contesto urbano striato, fatto di spazi, progetti, modi di vivere e abitare il quartiere irriducibile alla categoria passepartout del “degrado”, dei residenti asserragliati nel fortino, dell’invasione straniera, del decoro come arma di ditruzione dei legami sociali.

La nazionalità o il colore della pelle dell’assassinio di Francesca, Elisabeth, e Angelica non saranno un fattore determinante a stabilire, in meglio o peggio, il grado di barbarie della tragedia. Il razzismo e il fascismo di oggi, più di ieri, vivono e si esprimono nelle materiali condizioni sociali di povertà, esclusione, egoismo, sfruttamento. Non hanno bisogno, necessariamente, di una connotazione “etnica” o politica pura, separata, rappresentativa di un modello binario, comodo per le coscienze poco allenate alla complessità del contemporaneo. Le parole scarseggiano, la rabbia ci fa sbandare. E così prendiamo in prestito le parole di chi ha conosciuto sul campo la dura realtà della discriminazione e la passione per la solidarietà: “È l’esclusione sociale e il vivere ai margini che uccide, prima ancora della mano (qualunque essa sia) che appicca un fuoco o mette la mano su una pistola. E lo fa al di là della provenienza, non ha nazionalità. Da sempre tali condizioni hanno prodotto e producono ancora oggi morti e disperazione. Una spirale che riproduce se stessa. Dovremmo focalizzare l’attenzione su questo, spezzare questo cerchio, perché se non si interviene sulle cause che portano a queste condizioni, episodi di questo tipo continueranno ad accadere”.

12 Mag, 2017

La rivoluzione con il chador delle ragazze di Teheran

Vanna Vannuccini, La Repubblica

La scuola di musica è di fronte alla Vahdat Hall, il teatro dell’Opera. Ragazze con la tipica mise delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri entrano e escono con i violoncelli, violini, strumenti a fiato.
Trentotto anni fa l’ayatollah Khomeini bandì ogni genere di musica. Trasportare uno strumento era come un’arma. Oggi non è più così, sebbene il divieto non sia mai stato abolito.

11 Mag, 2017

Una morte da stigma sociale

Tommaso Di Francesco, Il Manifesto

Mentre scriviamo l’unica certezza è che le povere vite di una ragazza e di due bambine, le sorelle Elisabeth, Francesca e Angelica Halinovic, sono ormai cenere. Unico residuo delle loro esistenze bruciate nel camper incendiato nella zona di Centocelle dove vivevano con la loro famiglia composta dai genitori e da ben 11 figli. Troppo presto per capire il movente di questo omicidio, commesso con il lancio di una molotov e però davanti ad un centro commerciale munito di videotelecamere.

Troppo presto – e già gli inquirenti lo escludono – per dire che il criminale sia stato mosso dall’odio xenofobo per i rom, tanto da fare ricorso ad un rituale plateale quanto sprovveduto; oppure se si tratta di un balordo mosso da risentimento o vendetta magari all’interno della stessa comunità rom, perché la famiglia delle ragazze uccise denuncia di essere stata intimidita. Certo non è lo stesso episodio di soli sei anni fa quando sempre a Roma, a Tor Fiscale, morirono quattro bambini in un rogo dentro un campo Rom, provocato da una stufetta.

Ma sono troppi ormai gli «incidenti», una vera litania, che ci costringono a commentare queste morti nei luoghi della esclusione sociale che qualcuno preferisce definire – ieri le agenzie italiane lo ripetevano – «ambienti nomadi».

Costringete alla chiusura e ghettizzazione un gruppo sociale che avete etichettato come diverso, sporco, dedito al furto, quasi etnicamente connotato per il malaffare; obbligatelo alla promiscuità interna senza collegamenti con il mondo esterno, alla marginalità. Ecco che questo stigma sociale diventerà esso stesso la motivazione del misfatto che si consuma. È quello che accade ai Rom in tutta Europa. Come dimenticare che l’ex premier francese Valls aveva costruito la sua fortuna elettorale pochi anni fa sulla cacciata da Parigi dei Rom. Una fenomenologia europea che rappresenta uno dei segnali, per tutti, della mancata integrazione sociale. Perché i rom sono stati cacciati dai luoghi d’insediamento storico, Slovacchia, Repubblica ceca, Bulgaria, ex Jugoslavia.

E, pur non avendo mai fatto guerra a nessuno, sono stati costretti di nuovo alla fuga per salvarsi, a quel «nomadismo» che lombrosianamente i luoghi comuni della xenofobia vogliono ogni volta attribuirgli, come fosse una «caratteristica» stampata sulla loro pelle e nel loro sangue.

Non è così invece. Alla loro stanzialità e sicurezza essi attendono ogni giorno, relegati però nei «campi», nella «emergenza» delle nostre società. Il progetto d’integrazione abitativa e prima ancora la scolarizzazione dei bambini rom, dovrebbero appartenere ad un programma progressista di svolta negli insediamenti urbani e in tutta Italia. Non è così. Anzi, spesso è proprio il contrario, con gli ultimi «nostrani» che si rivoltano, aizzati dall’estrema destra razzista, a ricacciare i nuovi esclusi ancora più sotto. Poco prima o appena dopo i rifiuti urbani, la monnezza.

La retorica dunque non serve, né è utile rinnovare gli stessi, improduttivi interventi fin qui realizzati. Occorre anche una rivoluzione culturale. Pensate che effetto farebbe – proponeva Leonardo Piasere nel suo recente e bel saggio «L’antiziganismo» – se mettessimo la parola «ebreo» al posto delle parole «zingaro» «rom» o «nomade», e per un popolo che ha subìto con il Porajimos lo stesso sterminio nazista. Che effetto farebbe dunque sentir parlare di «Piano ebrei», del «Centro raccolta ebrei» e del «vilaggio attrezzato per ebrei».

Serve, com’è accaduto ieri a Centocelle, vicino Via Gordiani – in una zona a memoria almeno «pasoliniana», che lavora ed è attiva sull’integrazione – la reazione emotiva e politica degli abitanti che hanno visto consumarsi la tragedia vicino casa, sotto le loro finestre.

Portano in tanti bigliettini e lettere di commiato e di dolore; e hanno scritto uno striscione, forse tardivo, ma vero e necessario: «Sono morti del quartiere».

09 Mag, 2017

Canale di Sicilia mortale: 200 dispersi in due naufragi

Alfredo Marsala, Il Manifesto

Voleva salire su quel maledetto gommone per dare un futuro migliore al bimbo che portava in grembo ormai da nove mesi. Finalmente sarebbe toccato anche a lei dopo mesi di stenti e privazioni nei casermoni lungo la costa libica; al suo fianco il marito. Ma quando tutto sembrava pronto, ecco la tragedia. Quel figlio per il quale aveva deciso di partire è venuto alla luce mentre si trovava in spiaggia; il bimbo c’è l’ha fatta, lei no. E’ morta di parto, mentre il marito, distrutto dal dolore, saliva sul gommone col viso pieno di lacrime, tenendo tra le braccia il neonato.

A raccontare questa straziante storia sono stati alcuni testimoni soccorsi nel Canale di Sicilia, giunti poi a Lampedusa a bordo della «Golfo azzurro» della ong Open Arms, che ha salvato in totale 500 persone, molti siriani, 300 delle quali trasferite poco dopo sulla nave Prudence di Msf sulla quale vi sarebbero il neonato col suo papà, diretta a Crotone. «Ho sentito questo terribile racconto – dice Pietro Bartolo, medico del poliambulatorio di Lampedusa – ma mi sono occupato di un altro bimbo, di appena un mese, che abbiamo trasferito in elisoccorso all’ospedale di Agrigento a causa di una grave crisi respiratoria. In questo sbarco c’erano 15 bambini, molte donne e molti siriani, che hanno ripreso la via di Lampedusa dopo lo scellerato accordo che l’Europa ha fatto con la Turchia. I siriani non si vedevano da tempo e il fatto che siano riapparsi è un segnale che deve far meditare la politica».Nel giro di poche ore sono stati lanciati due allarmi per circa 200 persone disperse in mare. Almeno 113 migranti si sarebbero trovati a bordo di un gommone che si è capovolto al largo di Az Zawiyah, in Libia, ha riferito Flavio Di Giacomo dell’Oim. Gli uomini della guardia costiera libica e alcuni pescatori sarebbero riusciti a salvare solo sette persone, sei uomini e una donna. Secondo i sopravvissuti sul natante si trovavano 120 persone, tra cui 30 donne e 9 bambini.

Sempre al largo della Libia sarebbero dispersi altri 80 migranti, come riferito dai sopravvissuti soccorsi dal cargo danese Alexander Maerks e giunti a Pozzallo (Rg). La tragedia sarebbe avvenuta intorno alle 8 di domenica. Durante la navigazione un gommone con circa 120 persone, probabilmente per l’eccesso di carico, ha cominciato ad imbarcare acqua e si è ribaltato, facendo cadere tutti i migranti in mare. Solo una quarantina di loro è riuscita ad aggrapparsi al natante, rimanendo in acqua per molte ore. Fino a quando non sono riusciti a salire sul mercantile «Maersk».

Il comandante del cargo danese ha confermato il naufragio e ha rivelato che alcuni dei cadaveri sono stati recuperati da un’altra nave impegnata nei soccorsi. Il sostituto procuratore di Ragusa, Marco Rota, ha aperto una inchiesta per naufragio colposo. Accertamenti sono in corso per verificare se il naufragio sia avvenuto in acque libiche o internazionali. Tra i dispersi ci sarebbe anche uno scafista, mentre la polizia sta valutando la posizione di tre persone sospettate di far parte del gruppo alla guida del gommone. Sempre a Pozzallo, la polizia ha arrestato uno dei presunti scafisti dei quattro gommoni, con a bordo 408 migranti sbarcati dalla nave Fiorillo: si tratta di un somalo di 19 anni, Nasrudin I Said, indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Altri scafisti, hanno ricostruito i testimoni, sono rientrati in Libia con un altro gommone dopo avere smontato i motori e lasciato alla deriva i natanti in attesa dell’arrivo dei soccorritori in acque internazionali. In manette anche un marocchino che avrebbe tentato l’ingresso clandestinamente che era destinatario di un ordine di carcerazione per furti e rapine commessi a Padova nel 2013. Rimangono sotto osservazione nell’ospedale di Pozzallo le 20 donne in gravidanze ricoverate due giorni fa, 11 delle quali con minacce di aborto: erano a bordo del cargo danese Alexander Maerks.

Dopo il boom di sbarchi nel weekend (oltre seimila), salgono a 43.245 gli arrivi di migranti nel 2017, il 38,54% in più rispetto al 2016, che alla fine è risultato l’anno record con 181mila stranieri giunti via mare; 5.551 i minori non accompagnati. I richiedenti asilo trasferiti in altri paesi europei secondo il piano della relocation sono 5.415.

08 Mag, 2017

Lang: “Il mio partito ha smesso di pensare. Solo Mélenchon riusciva a farci capire”

Stefano Montefiori, Corriere della Sera

“E’ una vittoria della libertà e della democrazia. Ma non ho mai dubitato che finisse così”. Jack Lang, 77 anni, è una figura storica della politica francese. Ministro di Mitterand dal maggio 1981, e poi al governo per oltre vent’anni tra Cultura e Educazione, europeista convinto, oggi Lang è presidente dell’Institut du Monde Arabe. Una vita nel partito socialista, dopo questa elezione sull’orlo della scomparsa.