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04 Mag, 2017

Si faccia chiarezza sulla morte di Niam Maguette

Esprimo il mio sincero cordoglio per la morte di Niam Maguette avvenuta ieri a Roma nel corso di un controllo da parte dei vigili urbani. Si tratta di un fatto tragico, che avrà delle ricadute pesanti sulla famiglia dell’uomo e sulla vita dei suoi due figli, sul quale è necessario a prescindere aprire una valutazione.

Una valutazione che deve tener conto in primo luogo delle condizioni di vita e di salute di molti ambulanti e, di conseguenza, del modo in cui vengono svolti i controlli anti abusivismo. Proprio per questo, è quanto mai necessario fare chiarezza sull’accaduto e accertare con il massimo impegno cosa sia realmente successo nel corso di quel controllo.

Tragedie di questo tipo devono e possono essere evitate e qualunque lotta alla contraffazione non può prescindere dall’umanità verso l’anello più debole e più visibile di questa catena.

Anche la politica deve fare la sua parte, ripensando a nuovi modelli di assistenza, perché un’amministrazione o un governo che scambia il tema dei migranti con quello del decoro alimenta solo un clima di tensione e di guerra tra poveri che nulla a che fare con la sicurezza dei cittadini.

04 Mag, 2017

Nian, senegalese morto in un blitz: vittima del decoro

Mario Di Vito e Rachele Gonnelli, Il Manifesto

Si può morire di decoro, crollando a terra a pochi passi dal Lungotevere e dalle vetrine di design. Si può morire in uno sbocco di sangue dopo aver passato ore e ore trascinandosi dietro un borsone nero pieno di finte pochette di marca a nascondersi dai vigili urbani della squadra dei Falchi, mobilitati per la prima grande retata anti ambulanti dell’era Minniti lanciata ieri mattina nel cuore di Roma con l’ausilio anche di un elicottero: in pratica una caccia all’uomo da far invidia alle battute padane alla ricerca del terribile Igor il Serbo. Può succedere soprattutto se questa vita la fai da trent’anni.

SI CHIAMAVA Nian Maguette, aveva 54 anni, originario della regione di Louga in Senegal, si guadagnava da vivere, per sé e per i suoi tre figli, facendo il venditore ambulante, due li aveva portati in Italia e l’altro era rimasto in Senegal con la madre. È morto intorno all’ora di pranzo sul marciapiede di via Beatrice Cenci, all’ingresso del Ghetto, dopo aver passato la mattinata a scappare dal blitz contro l’abusivismo nella zona intorno all’antico Ponte Fabricio, di qua e di là del fiume. Le testimonianze sugli ultimi attimi in vita di Nian divergono: alcuni testimoni sostengono che l’uomo sia stato inseguito da una moto della municipale, forse investito e abbia sbattuto la testa. Altri invece riferiscono che l’ambulante stesse barcollando per la strada fino a quando si è accasciato ed è morto così, lasciando per terra una macchia di sangue densa e estesa ancora ben visibile diverse ore dopo i fatti.

IL NEGOZIANTE che lo ha visto attraverso la vetrata accasciarsi riverso a terra con le braccia in avanti dice di aver pensato inizialmente a uno svenimento. Una passante ha chiamato il 118 e gli infermieri hanno provato in tutti i modi a rianimarlo, inutilmente. Quando Nian è stato alla fine coperto da un telo dorato, del tutto simile a quelli dati ai migranti salvati in mare, gli altri venditori senegalesi fuggiti nelle stradine attorno, si sono radunati e hanno inscenato un mini corteo di protesta. Sono stati dispersi dalla celere a colpi di manganello nel giro di pochi minuti. È probabile che nei prossimi giorni la comunità senegalese di Roma organizzi una manifestazione per chiedere verità e giustizia.

GLI UOMINI DELLA POLIZIA cittadina, poi, hanno anche portato in centrale un ragazzo senegalese che, pur non essendo un testimone oculare, stava riportando ai cronisti le voci sull’inseguimento tra i vigili in moto e Nian. Gli uomini della polizia locale l’hanno interrotto a metà racconto, intimandogli in maniera perentoria di seguirlo in commissariato per mettere agli atti la sua versione. A trattare sul punto sono arrivati anche due giovani avvocati, che, dovesse essercene il bisogno, proveranno a prendere in carico il caso.

Il sostituto procuratore Francesco Paolo Marinaro ha aperto un fascicolo d’inchiesta, per ora senza ipotesi di reato né indagati, in attesa delle informative della municipale e, soprattutto, dei risultati dell’autopsia che è stata disposta sul corpo di Maguette.

I RAGAZZI DELLA COMUNITÀ senegalese raccontano che Nian era in Italia da trent’anni, viveva sulla Prenestina e cercava di sfamare la sua famiglia vendendo borse per le strade della Capitale, riuscendoci peraltro a stento. «Era un uomo buono che lavorava davvero per un pezzo di pane – racconta Diop, 35 anni, prima di essere portato in commissariato –, non riusciva nemmeno a mandare i soldi in Senegal, dove ha un altro figlio. Cercava di tornarci spesso, l’ultima volta sarà stato due o tre mesi fa».

I VIGILI, per bocca del vice comandante Antonio Di Maggio, negano ogni addebito: «Non esiste alcun coinvolgimento diretto tra l’operazione antiabusivismo e il decesso del cittadino senegalese».
Intanto, sulla pagina Fb del corpo di polizia locale di Roma Capitale si esulta per il successo del blitz: sequestri e multe per trentamila euro, somme che verosimilmente non verranno mai pagate. Con l’aggiunta della foto della catasta di borsoni di merce requisita, si rileva come la presenza dei venditori abusivi risultasse «dannosa anche dal punto di vista del decoro urbano in un sito sottoposto a vincolo paesaggistico». Nemmeno un accenno a Nian Maguette, morto di decoro.

03 Mag, 2017

L’ultimo sorriso di Valentino Parlato

«Valentino sorride». Ai parenti, agli amici e ai compagni di una vita che per primi sono accorsi all’ospedale Fatebenefratelli appena appresa la notizia della sua morte, Valentino Parlato sembra riservare uno dei suoi più ironici sorrisi.

Se n’è andato ieri mattina intorno alle 10, ad 86 anni, il fondatore e più volte direttore del manifesto, dopo una notte di coma e ventiquattr’ore di ricovero. Lieve, come è sempre stato.

Sono arrivati in tanti ad abbracciare sua moglie Delfina Bonada e i suoi figli, Enrico, Matteo e Valentina. Ma sono i più intimi: nessuna presenza istituzionale, nessun saluto formale. Lacrime, sorrisi, abbracci. Tra gli amici di una vita, i compagni della vecchia e della nuova “famiglia comunista”, quelli del collettivo del manifesto degli esordi e dell’attuale.

Si stringono tutti attorno a Luciana Castellina, la «sorella» con la quale Valentino Parlato ha condiviso oltre mezzo secolo di storia. Attoniti, Aldo Tortorella, l’amico di sempre, Chiara Valentini, Gianni Ferrara, Filippo Maone, Famiano Crucianelli, Enrico Pugliese, Luigi Ferrajoli, Vincenzo Vita, Nichi Vendola, Adriana Buffardi, Lia Micale.

Massimo D’Alema entra nella piccola sala mortuaria dell’ospedale sull’Isola Tiberina per un saluto, commosso al ricordo di quella figura che gli appariva quasi mitica quando, all’età di dieci anni, lo incontrava in casa, ospite dei suoi genitori. Fu allora che cominciò ad ammirarlo.

«Sono qui come amico e come compagno, ma soprattutto perché mai come oggi l’Italia avrebbe avuto bisogno di eretici come lui», dice commosso un anziano signore piegato sul bastone che vuole essere identificato solo come Guido, «uno che fa pasquinate». «È stato tra i migliori uomini del Novecento», sospira il professor Michele Padula che fece parte del collettivo del manifesto fino al 1978. «Tra le tante virtù che aveva Valentino, ve n’era una specifica politica e una umana – ricorda Padula – Era attento alle questioni sociali, oltre che economiche, e aveva la capacità di cogliere nel Mezzogiorno le contraddizioni moderne e quelle del passato. Ma soprattutto Valentino sapeva accogliere le persone. Non con le parole, a lui non servivano: lo faceva con la sua stessa presenza».

Nelle ultime settimane aveva finalmente cominciato a lavorare su un progetto a cui aveva pensato a lungo: un libro sulla sua terra natia, la Libia. Lo avrebbe scritto insieme al suo secondogenito, Matteo, giornalista Rai. Da Tripoli, dove nacque il 7 febbraio 1931, venne espulso a vent’anni, reo di aver tentato di fondare il Pci tripolino.

«Avevo 16 anni quando nei primi anni ’50 tentammo di aprire una sezione del Pci a Tripoli, insieme ad un professore di greco e ad un compagno arabo», racconta l’economista e giornalista Enzo Modugno, che si definisce «un compaesano» di Parlato. «Purtroppo la polizia se ne accorse e loro furono espulsi. Io no perché ero minorenne. Quando Valentino arrivò a Roma, Togliatti gli diede un posto a Botteghe oscure. Lo rincontrai solo molti anni dopo».

Si sono riabbracciati qualche mese fa, durante la conferenza di Roma sul comunismo e le celebrazioni del 1917, nel centro sociale Esc. «Era tra i migliori giornalisti d’Italia – s’infervora Enzo Modugno – Altro che Bocca e Montanelli!. A loro una volta mandò a dire: “Questa borghesia è illuminata finché qualcun altro paga la bolletta della luce”».

L’ultimo saluto

Chi vorrà dare l’ultimo saluto a Valentino Parlato potrà farlo ancora questa mattina dalle 8 alle 12 presso la morgue dell’ospedale Fatebenefratelli, sull’Isola Tiberina. Dalle 15 di venerdì 5

02 Mag, 2017

Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra

Bernard Guetta, L’Espresso

Sì, dobbiamo avere di nuovo paura della guerra.
Stiamo attenti a non abituarci all’idea. Guardiamoci bene dalle profezie che si autoavverano, anche se c’è indubbiamente nell’aria un sentore di guerra, una sensazione sempre più forte di qualcosa che sta per precipitare, quasi un bisogno di venire alle mani per stabilire, una volta per tutte, i rapporti di forza in questo mondo che fa così paura perché non lo si comprende più.

La situazione in cui ci troviamo non si è creata in un giorno. È il portato di una lenta e lunga evoluzione, quasi impercettibile. Ma se dovessimo datare questo cambiamento d’epoca potremmo farlo risalire alla primavera del 2014. Nel marzo di quell’anno, la Russia annette la Crimea ucraina. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, una potenza europea annette il territorio di un’altra potenza europea e la Russia comincia subito a fomentare, armare e finanziare un movimento di secessione dell’Ucraina orientale, ancora attivo.

Si può sostenere che la Crimea era stata russa fino al 1954, che l’Ucraina orientale è tanto russa quanto ucraina e che il Cremlino temeva che un riavvicinamento tra l’Ucraina e l’Alleanza atlantica gli facesse perdere la base navale di Sebastopoli. Ma si potrebbe ribattere che la Crimea era stata ottomana prima di diventare russa e che comunque è essenzialmente tatara, anche se resta il fatto che vi è stata un’annessione, in violazione di tutte le leggi.

Un tabù essenziale è stato violato e le conseguenze, anche se ovviamente meno visibili di un conflitto aperto, come quelli in corso nel Medio Oriente, sono devastanti. Gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno applicato sanzioni economiche contro la Russia che ne risente quanto i paesi occidentali.

Spaventati da questo precedente, i tre Stati baltici e la Polonia hanno ottenuto dalla Nato un rafforzamento della sua presenza nei propri territori. Al confine orientale dell’Unione europea, russi e occidentali ora si fronteggiano e lungo le sponde del Baltico la paura della guerra è tanto più reale quanto più l’aviazione russa lancia provocazioni quotidiane.

L’annessione della Crimea ha segnato una vera svolta perché Vladimir Putin ha scelto di risolvere con un fatto compiuto militare quello che considerava come un problema di sicurezza nazionale. Non uno ma due tabù sono caduti così di colpo e, in corrispondenza al ricorso alla forza da parte della Russia, vediamo oggi Donald Trump che invia una portaerei verso le coste coreane dopo aver fatto annientare una base dell’aviazione militare di Bashar al-Assad in Siria.

Sarebbe stato, certamente, orribile se, ancora una volta, il macellaio di Damasco avesse potuto usare impunemente armi chimiche contro il suo popolo. Ed è bene che l’“Ubu roi” nordcoreano sappia che non è più libero di fare qualsiasi cosa. Ma, ancora una volta, si è acceso un dibattito poiché il presidente americano ha bombardato la Siria senza un mandato delle Nazioni Unite e le sue gesticolazioni al largo della Corea possono scatenare una dinamica incontrollabile il giorno in cui Pyongyang decidesse di effettuare un nuovo test nucleare.
Dopo Mosca, anche Washington torna a ricorrere all’uso della forza come strumento politico. Entrambe le capitali lo fanno apertamente, senza imbarazzo e in modo tranquillo. E non è tutto. Perché i dirigenti cinesi fortificano e trasformano in basi militari degli isolotti contesi e disabitati del Mar Cinese Meridionale?
La risposta, limpida, evidente, è che il paese più popoloso del mondo vuole intimidire in questo modo i suoi vicini e Taiwan innanzitutto, dimostrando loro che non teme nessuno ed è la potenza dominante e assolutamente imprescindibile del continente asiatico, e forse, un giorno, anche del Pacifico.

Al pari di Washington e di Mosca, Pechino conta sulle sue forze armate il cui budget aumenta, rapidamente, ogni anno. Il grande sogno “onussiano” di un parlamento delle nazioni dove si potrebbero risolvere tranquillamente i conflitti sembra più che mai evanescente e i paesi dell’Unione europea cominciano a prendere in considerazione la creazione di una difesa comune e un aumento della loro spesa militare. Il fatto che si sentano costretti a imboccare questa strada è un segno dei tempi, poiché di fronte a una protezione americana ormai incerta, al riemergere di tensioni a Est e al caos del Sud, devono contare sulle proprie forze.

Si potrà dire che non c’è niente di nuovo sotto il sole ed obiettare che non si vedono progressi in questo senso. Ma durante tutto il periodo della guerra fredda, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti non avevano fatto altro che moltiplicare le loro testate nucleari arrivando a un passo dalla distruzione del mondo all’epoca della crisi dei missili di Cuba. E se alla fine hanno evitato uno scontro diretto, non hanno cessato di combattere guerre per procura, dal Vietnam all’Afghanistan, passando per l’Africa e l’America Latina.

È vero. Noi non usciamo da un’epoca di pace e di armonia planetaria, ma tra i decenni che hanno preceduto la caduta del muro di Berlino e quelli successivi, fra queste due epoche, le differenze sono così grandi che cambiano la situazione.

Nell’era sovietica, la Russia si estendeva entro i confini dell’Impero che gli zar avevano costruito e si proiettava verso l’Europa centrale che Stalin aveva annesso. Oggi la Russia resta il paese più esteso del mondo ma, tralasciando la Polonia che aveva cancellato dalla carta geografica nel XIX secolo, ha perso l’Asia centrale, la maggior parte del Caucaso e l’Ucraina, la culla da cui è nata più di mille anni fa.

Soffre ancora i dolori di queste amputazioni. Ed è in preda a una febbre revanscista. Nelle ex repubbliche sovietiche, diventate oggi Stati indipendenti, può far leva, come in effetti accade, sulle minoranze russe e di altre etnie che si erano insediate in questi territori in epoca sovietica e già ancor prima sotto gli zar.

La questione russa, che è essenzialmente una questione di frontiere, ha continuato a creare tensioni e, parallelamente, in Asia, un intero continente è emerso da un lungo letargo, si è affermato economicamente e, come l’Europa di ieri, sta cercando un equilibrio tra le sue grandi potenze. Paralizzata dalla Cina come l’Europa lo era stata dalla Francia di Luigi XIV e di Napoleone, l’Asia cova dei conflitti che ribollono nel Mar della Cina. E poi ci sono i mondi musulmani.

Ma la realtà più inquietante non è quella dell’Isis e del terrorismo islamista, che continuerà a colpire. Nessuna città, nessun paese, nessun continente ne è al riparo, ma l’Isis, già molto indebolito, non è invincibile, mentre il Medio Oriente sta entrando in una Guerra dei Cent’anni in cui s’intrecciano un braccio di ferro millenario fra le sue potenze, la religione e il crollo delle frontiere coloniali. Per dividere e regnare, Francia e Gran Bretagna avevano disegnato, sulle macerie dell’Impero Ottomano, degli Stati in cui dovevano convivere le differenti religioni dell’Islam e del cristianesimo, per non parlare dei drusi, dei curdi o degli yazidi. La guerra fredda aveva consolidato questi confini, perché i due blocchi dividevano anche il Medio Oriente, ma oggi che non c’è più il colonialismo né il bipolarismo, la realtà riprende il sopravvento.

Tutti vogliono vivere in casa propria, perché tutti vogliono prendere possesso del loro destino. Gli Stati postcoloniali si stanno sgretolando e questo tanto più velocemente quanto più la rinascita della Persia sotto le spoglie del moderno Iran rinfocola la rivalità tra le due correnti religiose dell’Islam, i sunniti e gli sciiti, e rimette in contrapposizione la potenza araba con quella persiana.

Dall’Asia al Medio Oriente passando per l’area russa, la fine della guerra fredda ha risvegliato innumerevoli conflitti rimasti a lungo congelati. Stiamo vivendo i primi sussulti della gestazione di un nuovo mondo e le paure che suscitano si aggiungono a quelle generate dalla globalizzazione economica, con le sue delocalizzazioni di imprese, le sue nuove forme di concorrenza e la conseguente pressione che essa esercita sui redditi e i sistemi di protezione sociale dei lavoratori salariati occidentali.

Il sommarsi di queste paure ha prodotto, a sua volta, un ritorno dei nazionalismi e delle destre estreme negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Quasi il 22 per cento dei francesi ha votato per la Marine Le Pen in Francia. Questo non le basterà per conquistare la presidenza della repubblica, ma è comunque un grande risultato e figure politiche a lei simili sono già al potere a Washington e Nuova Delhi, a Mosca e Gerusalemme, a Pechino, Budapest e Varsavia. Il nazionalismo è una tendenza sempre più diffusa in questo inizio dei secolo. Ma il nazionalismo è la guerra.

Traduzione di Mario Baccianini