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10 Apr, 2013

La difficile vita dei centri antiviolenza

violenza-donne
“Dalle statistiche sulle cause di morte ci accorgiamo che il numero dei femminicidi è inchiodato non si riesce a intaccarlo, questo vuol dire che è un fenomeno strutturale al Paese e servirebbero politiche costanti, di lungo periodo”. Con questo appello Linda Laura Sabbadini, direttore dipartimento per le statistiche sociali ed ambientali dell’Istat descrive i numeri della violenza di genere
durante il convegno “La dura realtà del femminicidio espressione del potere diseguale tra uomini e donne” organizzato dall’Enea a Roma venerdì scorso.

La stessa Sabbadini chiarisce il quadro: «Non può essere una campagna di sensibilizzazione a risolvere il problema, i femminicidi sono solo l’iceberg, la violenza contro le donne è molto più ampia». È la stessa richiesta che fanno i centri antiviolenza da anni, inascoltati, e che i finanziamenti siano costanti per quelle strutture che accolgono le donne che scappano da un legame violento e che può facilmente ucciderle.

Lo hanno ribadito lo scorso 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, uniti nella Convenzione No More, sottoposta al governo, «per richiamare le istituzioni alla loro responsabilità e agli atti dovuti, per ricordare che tra le priorità dell’agenda politica, la protezione della vita e della libertà delle donne non può essere dimenticata e disattesa». L’8 marzo lo hanno gridato, 62 centri antiviolenza e case rifugio unite nella rete Dire. Chiedono il rinnovo del Piano nazionale contro la violenza alle donne del 2010, «con garanzia di stanziamenti economici adeguati e costanti ai centri antiviolenza/case rifugio su tutto il territorio nazionale anche da parte degli enti locali e riconoscimento del livello essenziale di assistenza sociale (LIVEAS) per la violenza contro le donne» e che le regioni finanzino regolarmente i centri attraverso i Comuni e i piani di zona.

In Puglia: sulla carta tanti posti, in realtà nessuno
Maria Luisa Toto è la presidente del centro antiviolenza Renata Fonte di Lecce. Ha fatto lo sciopero della fame quest’inverno per non dover chiudere. Il centro c’è dal 1998 e da maggio 2011 i soldi garantiti dal comune non vengono più liquidati: «Come ci finanziamo? Bellissima domanda – scandisce amaramente – Sono due anni, dal 20 maggio che siamo senza quel miserabile rimborso spese per la gestione delle attività, siamo volontarie. Pur essendo l’unico centro del comune di Lecce non percepiamo nulla, ci stiamo mantenendo di tasca nostra». Del 2004 è la convenzione firmata con il comune per 10 mila euro l’anno poi dimezzati nel 2008, per un contributo di 13 euro al giorno. La convenzione è scaduta il 20 dicembre: «Il 15 febbraio mi sono incontrata con il sindaco, una stretta di mano e mi ha garantito il rinnovo – racconta Toto – e anche la liquidazione degli arretrati. Eravamo felici, ora siamo ad aprile e non c’è ancora nulla.
Nel momento in cui abbiamo inviato la rendicontazione la dirigente del Comune ci ha risposto che servivano ulteriori dettagli tra cui l’elenco delle utenti del centro, con relazione dettaglia di presa in carico. Ma non si può fare ci sono le norme sulla privacy. Le donne mi possono denunciare».

Toto racconta che «sulla carta la Puglia è piena di posti letto» in cui le donne possono rifugiarsi per un periodo in fuga dal proprio marito e compagno violento, portando con sé anche i figli «ma se una donna ha bisogno di aiuto nessuno la può accogliere. Ci sono case di accoglienza religiose ma sono posti letto per donne in difficoltà, non case rifugio». Il centro Renata Forte fa parte dell’associazione dei centri antiviolenza della Puglia, è il centro antiviolenza del piano di zona, hanno dato la disponibilità per la reperibilità h24 per il numero unico nazionale 1522 del dipartimento Pari Opportunità, fanno consulenza legale con il gratuito patrocinio, testimoniano ai processi come persone informate dei fatti, lavorano a stretto contatto con le forze dell’ordine, ma ciò non basta. Venerdì hanno accolto una donna con due figli piccoli in fuga da casa perché il marito è tornato, dopo che è stato accolto il ricorso e annullato il provvedimento di allontanamento: «Il lavoro non ci pesa, la nostra è una scelta di vita ma è una questione di rispetto dei diritti umani, voglio i fatti altrimenti si va in procura».

Messina non ha potuto nemmeno partecipare ai bandi
Il dipartimento delle Pari opportunità ha messo a bando 10 milioni di euro previsti dal piano antiviolenza del 2010 dell’allora ministra Mara Carfagna. I soldi vanno per finanziare strutture nuove e sostenere l’esistente. C’è chi però non ha nemmeno potuto partecipare, nonostante la lunga esperienza nel campo dell’assistenza alla violenza domestica, riconosciuta anche dalle istituzioni. È il centro Cedaw di Messina, l’unico della città, il più antico della Sicilia, nato nel 1989. «Fino a tre anni fa partecipavamo ai bandi – racconta la presidente Carmen Currò – ma siccome il comune deve essere partner dei progetti non abbiamo potuto perché burocraticamente non è riuscito a partecipare, siamo stati penalizzati dalla mancanza di competenza degli assessori locali.

Il comune ora è commissariato, e nessun soldo è arrivato dalla regione dalla legge 3 del 2012 “per il contrasto e la prevenzione della violenza di genere” che ha finanziato solo i distretti socio sanitari più grandi, di Palermo e Catania: «È stata una legge inutile in particolare per le aree che vivono situazioni di maggiore debolezza, e quindi per le donne che vivono in quelle zone». Anche qui si sopravvive di autofinanziamento: «viviamo con sottoscrizioni della cittadinanza, organizziamo feste ed eventi. Abbiamo tagliato il numero fisso, costava troppo, e lasciato la sede, ora ne condividiamo una con un gruppo di psicologhe».

Aquila: dove sono finiti i soldi?
Situazione emblematica quella dell’Aquila. Qui c’è il problema del terremoto che fa schizzare la violenza di genere, secondo Actionaid, ong che ha deciso di intervenire sul problema della violenza di genere in Italia con una serie di progetti a sostegno dei centri, ha misurato un aumento della violenza contro le donne del 20% l’anno scorso rispetto al 2009. Ha scritto la ricerca “Dove sono finiti i soldi per le donne de L’Aquila?” , che ricostruisce il percorso di tre milioni di euro stanziati dal governo nel 2009 e non ancora spesi. «Il decreto 39 del 2009 – racconta Rossana Scaricabarozzi – prevedeva tre milioni per i centri di ascolto, attività di sostegno alle donne e alle madri in difficoltà. La relazione tecnica del decreto specificava che i soldi li avrebbero presi da un fondo del dipartimento Pari Opportunità (e rientrano nel Piano nazionale antiviolenza, ndr).

Le donne del centro Melusina e Stefania Pezzopane, allora presidente della provincia dell’Aquila, hanno rivendicato che quei fondi andassero anche ai centri antiviolenza. Non si sono avute notizie fino al novembre 2011 quando con un’ordinanza del presidente del Consiglio se ne affidava metà alle diocesi abruzzesi, e l’altra metà a Letizia Marinelli consigliera regionale di parità». Si arriva all’anno scorso. Il ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca fa il punto sui soldi per la ricostruzione e dice che questi tre milioni sono ancora in mano al Governo, nell’agosto 2012 Gianni Chiodi, presidente della regione, emana un decreto in attuazione dell’ordinanza del 2011, in cui approva un progetto della Arcidiocesi dell’Aquila che viene bocciato dalla Corte dei conti. «Pochi soldi sarebbero stati utilizzati per i servizi, la maggior parte per acquistare gli immobili – spiega Scaricabarozzi – l’ordinanza del 2011 è ancora in vigore e questi soldi non sono ancora arrivati.

Marinelli ha presentato un progetto, a Chiodi e al Governo ma non ha ricevuto risposta». Oggi il centro antiviolenza Melusina va avanti con professionalità gratuite. Forniscono consulenza psicologica, legale e sanitaria. Chiedono una casa perché oggi sono ospitate in un container oppure che gli venga affidato un edificio pubblico da ristrutturare. Sono arrivate anche le minacce. L’avvocato Simona Giannangeli ha seguito la costituzione a parte civile della casa nel processo Tuccia, l’ex militare condannato a 8 anni in primo grado con le attenuanti generiche per aver stuprato una studentessa e averla abbandonata incosciente fuori al freddo, a febbraio dell’anno scorso. «Ha subìto minacce in seguito alla condanna – commenta Scaricabarozzi – queste minacce, oltre agli ostacoli economici, minano le attività del centro».

Dire: «Finanziamenti legati alla sensibilità degli enti locali»
Da vent’anni i centri antiviolenza italiani si sono messi in rete, per farsi forza e chiedere alla politica stanziamenti certi, racconta Titti Carrano, presidente della Rete Dire, (donne in rete contro la violenza): «Il tema del finanziamento lo portiamo avanti da sempre. La realtà è varia, ci sono centri che hanno convenzioni, altri che vivono con i bandi pubblici pubblicati dal dipartimento delle Pari Opportunità ogni anno e mezzo. I finanziamenti sono legati alla sensibilità degli enti locali perché la materia è devoluta per competenza a loro». Per Carrano, «il tema della violenza contro le donne deve essere una priorità della politica, non si può sottostimare, l’attuale situazione economica e sociale del Paese non giustifica la mancanza di risorse, i tagli ai servizi sociali hanno una forte valenza di genere».

Carrano fa la mappa dei centri: «Il Molise non ha nemmeno un centro antiviolenza, la Sicilia ha due centri a rischio chiusura, a Messina e a Catania, in Calabria a Cosenza, c’è il centro Roberta Lanzino in forte difficoltà, a Viterbo, il centro Irinna, da tempo denuncia la mancanza di fondi, poi c’è Latina. A Roma invece, Donne In genere è a rischio di sfratto, poi c’è Demetra a Lugo di Romagna, per citarne solo alcuni. Tranne alcune isole tranquille, come Lombardia, Emilia Romagna e Lazio che hanno più strutture, la situazione è di precarietà». Carrano fa notare che l’assenza di centri porta a un aggravio del bilancio pubblico, più di quanto sarebbe sostenere in modo costante la prevenzione.

Giudizio condiviso anche da Oria Gargano, presidente di Be free, associazione che opera con uno sportello in soccorso delle donne dentro il pronto soccorso dell’Ospedale San Camillo di Roma. Anche qui, la politica fa mancare l’ossigeno: «Abbiamo lo sportello dal 2009, a novembre 2011 ci è stato detto dalla regione Lazio che non c’erano i soldi per rinnovare la convezione. Per oltre un anno abbiamo lavorato gratuitamente poi, fortunatamente, abbiamo vinto un bando del ministero delle Pari opportunità, su un altro progetto, di formazione sempre presso l’ospedale». Grazie a questo progetto, non strettamente legato al pronto soccorso, l’associazione può continuare a garantire l’assistenza nel triage che ha fornito negli ultimi quattro anni. I soldi ci sono fino a novembre 2014, poi bisognerà chiederli di nuovo: «Non c’è continuità, la possibilità di potersi strutturare, si lavora con un’ansia continua. Sul piano economico, comunque bisogna tenere presente il costo sociale della violenza, che è infinito se si calcolano, ospedali, tribunali, perdita del lavoro, insegnante di sostegno per i bambini».

I casi “positivi”, Bologna e Palermo
«Abbiamo tre case rifugio, per una ventina di posti letto, sette alloggi di transizione, dove le donne possono andare dopo la casa rifugio per due anni e pagano un piccolo contributo per le spese. In più abbiamo un supporto per i minori, e una casa ’Safe’, finanziata dal dipartimento Pari opportunità, per le donne che si rivolgono alle forze dell’ordine con nove posti letto» racconta Angela Romanin, socia e operatrice della Casa delle donne per non subire violenza di Bologna, aperta negli anni Novanta e centro di riferimento per la città e non solo che accoglie più di 600 donne l’anno.

A Bologna c’è quello che nella maggior parte del Paese manca: case dove poter nascondere le donne che fuggono dai propri compagni violenti, magari con bambini piccoli, per riprendersi quella vita che non le appartiene più e che potrebbe scivolare loro via per sempre, uccise. In Italia i posti letto sono solo 500 contro i 5700 che raccomanda il Consiglio europeo.

Budget totale dei servizi di accoglienza della casa di Bologna: 300 mila euro l’anno. «Abbiamo un problema di finanziamento da dieci anni. Quando abbiamo aperto il comune copriva in toto le spese, poi nel tempo questi finanziamenti si sono assottigliati e adesso siamo alla metà dell’importo del servizio quindi ogni momento facciamo fund raising, paghiamo una persona apposta e comunque non ce la facciamo. Abbiamo avuto una grossa donazione nel 2010 ma fra un paio d’anni saremo a secco di nuovo». Il problema sembra la politica e solo la politica può risolverlo per Romanin: «Dovremmo essere finanziati dallo stato centrale con delle linee di finanziamento chiare oppure dai governi locali, con finanziamenti stabili, non dipendenti dalle convenzioni e quindi, siccome il centro antiviolenza è stato aperto da una giunta di sinistra o di destra, l’altro lo chiude. Se ci tagliano i finanziamenti noi cosa facciamo? Chiudiamo la porta alle donne che ci chiedono aiuto?».

C’è una situazione non omogenea: «A livello regionale ci sono case con finanziamenti sufficienti e magari hanno un importo superiore al nostro che siamo capoluogo di provincia e ci sono territori come Parma dove si pagano solo le rette degli appartamenti di ospitalità. Un centro antiviolenza fatto solo con volontariato non è assolutamente sufficiente, i centri antiviolenza sono come dei pronto soccorso che dovrebbero funzionare 24 ore su 24, costano di meno che non averli, se non li hai, la violenza di genere comunque c’è, e come dice l’Oms ha un costo sociale altissimo». «Il Molise – conclude Romanin – ha il tasso di femminicidi più alto d’Italia, il doppio rispetto alle altre regioni e non c’è nemmeno un centro antiviolenza. Non è un caso». La Casa di Bologna è anche l’unica che tiene i numeri dei femminicidi, in Italia manca anche questo, una banca dati aggiornata sul fenomeno.

L’associazione Le Onde di Palermo per la prima volta quest’anno è «ben finanziata» come racconta la sua presidente, Vittoria Messina: «Abbiamo vinto un bando del dipartimento delle Pari Opportunità della durata di due anni, per la prima volta siamo ben finanziate e con continuità. Fino ad ora abbiamo lavorato con il volontariato e con la copertura grazie ad altri progetti». Anche loro gestiscono due case rifugio con, in tutto, 14 posti letto. Ma è l’unica nota positiva, perché invece, il coordinamento con gli altri servizi territoriali, la formazione degli operatori sanitari e di polizia, gli interventi insieme ai servizi territoriali «sono fermi, è una nostra competenza che negli anni passati era stata finanziata e non lo è più, il centro è in sofferenza». Stessa situazione nei pronto soccorsi, dove Le Onde, grazie ai finanziamenti europei del programma Daphne erano riuscite ad esserci con proprie operatrici specializzate nel riconoscere la violenza di genere: «Il progetto è durato due anni ed è finito, a livello locale non c’è la possibilità di programmare interventi a lunga scadenza che abbiamo nel tempo una ricaduta, le buone prassi non vengono recepite». Comunque loro nei pronto soccorsi del Policlinico, dell’ospedale Cervello e del Civico che fanno parte della rete antiviolenza della città, ci sono sempre , da volontarie «non c’è lo sportello ma la consulenza alle operatrici sanitarie».

Sabbadini (Istat): «Segnali pesanti dalle comunità di immigrati»
Linda Laura Sabbadini dell’Istat sta lavorando alla ricerca sulla violenza contro le donne che il dipartimento Pari Opportunità guidato da Elsa Fornero le ha commissionato. La precedente e unica finora è quella del 2007 dove è emerso che oltre 14 milioni di donne italiane sono state oggetto di violenza fisica, sessuale o psicologica nella loro vita, la maggior parte di queste da parte del partner e oltre il 90% mai denunciate. La ricerca non è ancora inziata ma lei lancia già alcuni segnali di allarme: «Faremo un campione specifico sulle donne immigrate – spiega al telefono – perché abbiamo segnali pesanti sulla violenza che subiscono. Si è visto con i dati del 1522, le donne immigrate che chiedono aiuto incominciano ad emergere.

Anche nelle denunce si evidenzia la violenza. Considerando che le denunce sono molto poche ed è più difficile per una donna immigrata denunciare il proprio compagno o un proprio connazionale, perché si tratta di comunità ristrette, vuol dire che dietro c’è un sommerso ampio che deve essere indagato». Inoltre, fa notare Sabbadini nel 2006, anno durante il quale sono state realizzate le interviste della ricerca pubblicata l’anno dopo, «la presenza immigrata era minore, ora in particolare quella femminile è cresciuta». Questo tipo di ricerca che di per sé è già complessa sottolinea la direttrice dell’Istat perché «è difficile comunicare quanto si è subito, ci siamo resi conto che non potevamo usare il termine violenza o stupro quando si tratta del partner ma dovevamo oggettivare il più possibile, parlare di ferite, di calci, fare la lista delle violenze». Anche le intervistatrici devono cambiare, ogni due –tre mesi, vista la difficoltà psicologica di affrontare certi racconti, e a loro viene offerto un supporto psicologico.

Le iniziative dei privati per aiutare i centri
Ai privati quindi, rimane l’onere di finanziare la gran parte dei servizi contro la violenza di genere, e negli ultimi mesi diverse sono state le iniziative private a sostegno dei centri antiviolenza. L’autrice e conduttrice Serena Dandini gira l’Italia con Ferite a morte, uno spettacolo in cui intervengono attrici, politiche, giornaliste, studiose. Nella tappa romana (l’8 aprile) parte del ricavato della serata è andato a sostegno di quattro centri della zona regione, il centro Erinna di Viterbo, Donna Lilith di Latina, L.I.S.A. di Roma e SOStegno Donna di Frascati Cocciano. Seguirà il 12 aprile la tappa di Torino.

La giornalista e scrittrice Cristina Obber autrice del libro “Non lo faccio più” lancia in questi giorni su Facebook la campagna “Batti 5” per devolvere il 5 per mille a sostegno dei centri della propria città, basta chiedere il codice del centro da inserire nella dichiarazione dei redditi. In passato anche aziende come Avon e Groupon si sono mostrate sensibili alla tematica e hanno deciso di sostenere i centri con campagne apposite di raccolta fondi.

Laura Preite, La Stampa

09 Apr, 2013

Immigrati: Bonafoni-Peciola, sospendere il prelevamento dei minori

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“Sulla questione dei minori stranieri ospitati nelle strutture del Comune di Roma si è creata un’attenzione mediatica distorta che sta già procurando riflessi negativi sulla vita dei tanti minori immigrati della nostra città”. Lo dichiarano in una nota congiunta Marta Bonafoni, consigliera della Regione Lazio e Gianluca Peciola, coordinamento Sel Area Metropolitana di Roma.

“Non entriamo per ora nel merito di un’inchiesta giudiziaria che deve seguire il suo iter, ma quello che sta accadendo da diverse settimane a Roma ad opera del personale di polizia municipale e su impulso dell’amministrazione comunale ha alcuni elementi che prima di qualsiasi clamore dei media necessitano di approfondimenti molto accurati. Ci chiediamo, alla luce del sospetto avanzato dai magistrati che ipotizzano la presenza di finti minori nei centri, perché non si provvede a controlli mirati anziché a prelievi di massa? E chi sta dando l’autorizzazione a procedere a esami medici che necessitano o dell’ordine del magistrato o della richiesta medica?
Quesiti delicatissimi, una situazione assai poco chiara che nei giorni scorsi ha anche portato al rilascio di 3 minori stranieri che a seguito dei controlli erano stati condotti al Cie di Ponte Galeria, per poi essere sottoposti a nuovi esami medici e risultare viceversa minorenni. In un contesto tanto delicato le azioni in corso stanno già producendo i loro primi concreti effetti negativi: i ragazzi prelevati vengono sottoposti a una nuova visita medica nonostante siano gia’ stati dichiarati minori da una struttura ospedaliera pubblica. Dalla nuova visita medica, evidentemente condotta con criteri discutibili, molti risultano maggiorenni e di conseguenza vengono espulsi e denunciati per truffa aggravata. inoltre, in molti saputo dei controlli stanno fuggendo mettendo a repentaglio i loro diritti e la loro condizione di minori senza riferimenti familiari”.

“Chiediamo che le operazioni di prelevamento dei giovani stranieri dalle strutture del Comune di Roma vengano immediatamente sospese, in quanto gli eventuali accertamenti dovranno essere effettuati su ordine della magistratura e con tutte le garanzie previste dall’ordinamento e in ogni caso è inconcepibile che eventuali carenze o errori della pubblica amministrazione si traducano con la lesione dei diritti dei giovani migranti”, concludono.
AgenParl

09 Apr, 2013

I rom in fila per votare: che scandalo, signora mia!

porrajmos
Giusto alla vigilia della Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti, qualcuno – qualcuna, in tal caso – probabilmente ignara della ricorrenza, lancia una delle consuete sparate razziste ai loro danni. Solo che questa volta non si tratta del solito Alemanno, né del leghista o neonazista di turno, bensì di una dirigente regionale del Pd, Cristiana Alicata.
Leggi l’articolo di Annamaria Riversa su Micromega

08 Apr, 2013

“Docce fatiscenti, celle sovraffollate e taglio dei fondi per il lavoro”

Sabato mattina (6 aprile) la deputata Celeste Costantino (Sel) e la consigliera regionale Marta Bonafoni (Per il Lazio) hanno visitato il carcere femminile di Rebibbia:
“Il sovraffollamento dei reparti, il servizio docce fatiscente, un taglio netto delle detenute occupate in lavori interni, la carenza del personale penitenziario conseguenza dei tagli operati nel settore: è questa la situazione che abbiamo trovato questa mattina nel corso della nostra visita nel carcere di Rebibbia femminile”.

È quanto dichiarano la deputata di Sel Celeste Costantino e la consigliera regionale del gruppo Per il Lazio Marta Bonafoni che stamattina per 4 ore hanno visitato nella sua interezza l’istituto penitenziario romano. “Siamo consapevoli di aver fatto un sopralluogo in una delle strutture detentive meno problematiche d’Italia – dicono Costantino e Bonafoni – e proprio per questo la nostra denuncia sullo stato delle carceri nazionali vuole essere alta e circostanziata”.

Questo il racconto: “In un istituto con una capienza massima di 281 ristrette sono ad oggi detenute 380 donne, 17 delle quali con i loro bambini. Proprio la situazione che abbiamo trovato nel reparto nido – aggiungono – ci ha colpito per il suo ordine e la sua efficienza, così come abbiamo riscontrato una buona condizione nel reparto di massima sicurezza. Molto diversa la situazione nei cosiddetti camerotti, dove in stanze per 3 ristrette convivono anche 5 donne”. E insistono: “Soprattutto vogliamo denunciare la situazione di degrado e pericolo delle docce (agibili solo 4 su 16): da almeno due mesi 250 detenute sono costrette a lavarsi nelle docce poste al piano terra dei reparti e all’interno di locali fatiscenti, pieni di infiltrazioni d’acqua, pericolosi anche dal punto di vista della sicurezza delle donne”.

Un ragionamento a parte merita il capitolo lavoro: “le occasioni di lavoro dentro il carcere, unica possibilità di recupero vero nonché di autonomia delle detenute – rimarcano Costantino e Bonafoni – sono state tagliate del 70% a causa dei mancati stanziamenti, e la stessa presenza di personale penitenziario risulta dai racconti degli stessi agenti del tutto insufficiente a un corretto rapporto detenuta/agente”.

“Per questo – dichiarano la deputata Costantino e la consigliera regionale del Lazio Bonafoni – intendiamo innanzitutto sollecitare il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria a ripristinare quanto prima un uso completo e sicuro delle docce del carcere e alla messa in sicurezza dei camerotti. Non solo: è indispensabile ripristinare i fondi per permettere alle detenute di partecipare a programmi di inserimento lavorativo”.

La visita di oggi, collegata ad altre analoghe di parlamentari di Sel in tutta Italia, è servita anche per porre l’attenzione su un pacchetto di proposte di legge sulla giustizia depositate da Sinistra ecologia e libertà  in Parlamento: sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano, sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina e sull’abrogazione della cd. “ex legge Cirielli” su recidiva e prescrizione dei reati.

07 Apr, 2013

Gestione Pubblica dell’acqua anche nel Lazio? Inizia il conto alla rovescia

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Il nuovo Consiglio regionale del Lazio appena insediato ha 365 giorni di tempo per discutere ed approvare la proposta di Legge regionale “Tutela, governo e gestione pubblica delle acque”, approvata da 39 comuni del Lazio e sottoscritta da circa 40mila cittadini: le delibere comunali approvate con la maggioranza dei due terzi obbligano infatti il Consiglio regionale a discutere entro un anno il testo, legiferando secondo quanto indicato nella proposta stessa, oppure ad andare a referendum propositivo regionale.

Dopo la grande vittoria referendaria del 12 e13 giugno 2011, quando 2.500.000 di abitanti del Lazio hanno votato contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali e per l’acqua pubblica fuori dal mercato, dopo la presentazione della proposta di legge, è ora necessario che la Regione Lazio dia seguito alla volontà popolare, attraverso la gestione pubblica dell’acqua, come stanno facendo altri enti locali nel resto del Paese.

Per questo oggi abbiamo atteso i consiglieri regionali all’ingresso del Consiglio Regionale, consegnando loro il “kit dell’acqua”: uno strumento attraverso il quale affrontare le questioni legate alla gestione del servizio idrico nella direzione indicata dai cittadini, con il quale si richiede a tutti un incontro per la costituzione di un inter-gruppo consiliare sull’acqua.

Per questo abbiamo voluto incontrare oggi il Presidente del Consiglio regionale, Daniele Leodori, al quale sono state consegnate le firme a sostegno della proposta di legge regionale e chiesto di avviare immediatamente i lavori per la discussione della legge, affinché si giunga alla sua approvazione entro un anno, attraverso un percorso scadenzato di discussione pubblica e partecipata che permetta di affrontare insieme alle comunità locali le criticità della gestione del servizio idrico nella nostra regione.

Durante il breve incontro, al quale erano presenti anche le consigliere Marta Bonafoni e Cristiana Avenali, il Presidente Leodori si è impegnato per avviare al più presto il percorso di discussione della legge, nel rispetto dei tempi e dei passaggi istituzionali, in un’ottica di ampliamento della discussione a tutte le realtà interessate.

Quello di oggi è stato dunque solo una prima iniziativa diretta al nuovo consiglio regionale, un’iniziativa che abbiamo deciso di mettere in atto insieme alle altre cruciali vertenze della Regione: sanità e gestione dei rifiuti, perchè sui servizi essenziali finisca il tempo delle speculazioni e nasca quello degli interessi collettivi

Si scrive acqua, si legge democrazia

07 Apr, 2013

Scuola e cultura, Italia maglia nera. Triste primato insieme ala Grecia

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Ad un paese sommerso dall’austerità, praticata dai governi di ogni colore e dai sapienti che continuano a mostrare inutilmente le loro presente eccellenze tecniche e amministrative, ieri l’Eurostat ha spiattellato una realtà urlata da anni dagli studenti, dagli artisti che occupano i teatri e i cinema, dagli sfrattati che si riappropriano delle case sfitte
Leggi l’articolo de Il Manifesto

07 Apr, 2013

Carcere di Rebibbia: “Docce fatiscenti, celle sovraffollate e taglio dei fondi per il lavoro”

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Stamattina in visita nel penitenziario la deputata Celeste Costantino (Sel) e la consigliera regionale Marta Bonafoni (Per il Lazio): “Urge intervento del provveditore regionale”. E Sel rilancia il suo pacchetto di proposte di legge sulla giustizia

“Il sovraffollamento dei reparti, il servizio docce fatiscente, un taglio netto delle detenute occupate in lavori interni, la carenza del personale penitenziario conseguenza dei tagli operati nel settore: è questa la situazione che abbiamo trovato questa mattina nel corso della nostra visita nel carcere di Rebibbia femminile”. È quanto dichiarano la deputata di Sel Celeste Costantino e la consigliera regionale del gruppo Per il Lazio Marta Bonafoni che stamattina per 4 ore hanno visitato nella sua interezza l’istituto penitenziario romano. “Siamo consapevoli di aver fatto un sopralluogo in una delle strutture detentive meno problematiche d’Italia – dicono Costantino e Bonafoni – e proprio per questo la nostra denuncia sullo stato delle carceri nazionali vuole essere alta e circostanziata”.

Questo il racconto: “In un istituto con una capienza massima di 281 ristrette sono ad oggi detenute 380 donne, 17 delle quali con i loro bambini. Proprio la situazione che abbiamo trovato nel reparto nido – aggiungono – ci ha colpito per il suo ordine e la sua efficienza, così come abbiamo riscontrato una buona condizione nel reparto di massima sicurezza. Molto diversa la situazione nei cosiddetti camerotti, dove in stanze per 3 ristrette convivono anche 5 donne”. E insistono: “Soprattutto vogliamo denunciare la situazione di degrado e pericolo delle docce (agibili solo 4 su 16): da almeno due mesi 250 detenute sono costrette a lavarsi nelle docce poste al piano terra dei reparti e all’interno di locali fatiscenti, pieni di infiltrazioni d’acqua, pericolosi anche dal punto di vista della sicurezza delle donne”.

Un ragionamento a parte merita il capitolo lavoro: “le occasioni di lavoro dentro il carcere, unica possibilità di recupero vero nonché di autonomia delle detenute – rimarcano Costantino e Bonafoni – sono state tagliate del 70% a causa dei mancati stanziamenti, e la stessa presenza di personale penitenziario risulta dai racconti degli stessi agenti del tutto insufficiente a un corretto rapporto detenuta/agente”.

“Per questo – dichiarano la deputata Costantino e la consigliera regionale del Lazio Bonafoni – intendiamo innanzitutto sollecitare il provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria a ripristinare quanto prima un uso completo e sicuro delle docce del carcere e alla messa in sicurezza dei camerotti. Non solo: è indispensabile ripristinare i fondi per permettere alle detenute di partecipare a programmi di inserimento lavorativo”.

La visita di oggi, collegata ad altre analoghe di parlamentari di Sel in tutta Italia, è servita anche per porre l’attenzione su un pacchetto di proposte di legge sulla giustizia depositate da Sinistra ecologia e libertà  in Parlamento: sull’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano, sull’abolizione del reato di immigrazione clandestina e sull’abrogazione della cd. “ex legge Cirielli” su recidiva e prescrizione dei reati.