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16 Ott, 2015

Frontiere chiuse e solidarietà. La storia di 66 nigeriane

 

Delle 66 ragazze nigeriane sbarcate quest’estate sulle coste siciliane e successivamente condotte come “clandestine” nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, meno di dieci sono riuscite a ottenere lo status di rifugiate politiche, nonostante probabilmente tutte abbiano avuto a che fare con storie di tratta.

Il loro inserimento nei percorsi di protezione previsti dal diritto internazionale e dalle leggi italiane appare al momento molto complesso, in un contesto di politiche europee sempre meno accoglienti nei confronti di migranti in fuga da guerre e persecuzioni.

Ne abbiamo parlato con Francesca De Masi, sociologa e operatrice di Be Free, cooperativa sociale che ha uno sportello nel C.I.E. di Ponte Galeria e che da anni si occupa di donne sopravvissute a situazioni di violenza domestica o a tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo. Proprio in questi giorni la cooperativa ha diffuso un appello rivolto al Presidente del Consiglio dei Ministri in occasione del meeting del Consiglio Europeo sui migranti, che si terrà il 15 e 16 ottobre, per chiedere politiche europee che tengano conto del fatto che la crisi dei rifugiati e dei richiedenti asilo non è affatto neutrale rispetto al genere.

Francesca, tu e la cooperativa Be Free avete avuto un ruolo chiave nella vicenda delle ragazze nigeriane, sui giornali ne sono state date notizie contrastanti e spesso poco chiare. Ci racconti cos’è successo da vicino?
Queste donne sono state condotte nel C.I.E. di Ponte Galeria il 23 luglio in seguito a un decreto di respingimento emesso dalla prefettura e dalla questura di Agrigento e Siracusa ed erano donne appena sbarcate sulle coste siciliane. Una volta arrivate nel centro hanno fatto richiesta d’asilo e sono state ascoltate dalla commissione a fine agosto. L’elemento dirompente di questa vicenda è stato prima di tutto l’alto numero di donne coinvolte nello stesso momento, poi il fatto che fossero state respinte, quindi che non ci fosse stato un percorso per capire che storie potevano avere, lo scopo era solo quello dell’identificazione e dell’espulsione.

Infatti, dopo le audizioni in commissione, per 40-45 di loro sono sono stati subito predisposti i rimpatri. Il 17 settembre è stato organizzato un volo da parte delle istituzioni preposte che le ha deportate a Lagos, in Nigeria. Uso il termine “deportazione”, che è lo stesso che hanno usato le ragazze, perché è indicativo del fatto che sono state prese e rimandate nel paese d’origine senza possibilità di appello o di reazione. Inoltre, non è stato dato il tempo alle ragazze di finire la procedura – che prevede l’audizione in commissione, in caso di diniego la possibilità di ricorso, e in caso di ricorso la possibilità di sospensiva, che è un documento del giudice del tribunale civile che stabilisce che finché non viene presa alcuna decisione sulla protezione della donna, la donna in questione risulta “sospesa” cioè non espellibile, perché in attesa di risposta del tribunale.

Quindi, anche se la prefettura e la questura non sono obbligate ad aspettare i tempi della sospensiva, la tempistica è stata troppo veloce. La volontà di espulsione era infatti chiara dall’inizio, perché quando sono arrivate, le ragazze sono state identificate dall’ambasciata nigeriana nel giro di uno o due giorni proprio ai fini dell’espulsione. L’unica volontà, insomma, era quella di metterle dentro al C.I.E. per rimpatriarle.

Quante sono le ragazze rimaste in Italia e quante quelle che sono state costrette a tornare in Nigeria?
Tutte e sessantasei hanno fatto richiesta d’asilo, ma solo una decina hanno ottenuto la protezione. Circa cinquanta invece sono state diniegate. Di queste, venti sono state rimpatriate, le altre trenta o sono ancora dentro al C.I.E. oppure gli avvocati hanno lavorato affinché ottenessero la sospensiva e quindi è stato possible farle uscire dal C.I.E. Tante sono state le associazioni, le avvocate e gli avvocati che si sono mossi in questo senso. Solo così è stato possibile farle uscire dal centro con un permesso di soggiorno e iniziare la procedura per la richiesta di asilo.

Qual è stato il tuo ruolo e quello della cooperativa e come siete riuscite a gestire questa complicata vicenda?
Noi, dal 2008, entriamo nel C.I.E. di Ponte Galeria ogni settimana tramite Fuori Giogo che è un progetto di emersione che vede come capofila la Provincia di Roma. Il progetto è finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità che ha il compito di gestire i progetti di emersione e di prima assistenza per le donne e gli uomini vittime di tratta e anche il cosiddetto “articolo 18”, vale a dire la parte relativa all’accoglienza e all’inserimento sociolavorativo di queste persone[1]. Il ruolo di Be Free è stato proprio quello di intercettare queste ragazze all’interno dello sportello che gestiamo nel centro di Ponte Galeria.

È stata una situazione molto difficile, perché erano tantissime e quindi non è stato possibile fare dei colloqui di approfondimento con tutte per comprendere se potessero essere effettivamente vittime di tratta, anche se c’erano tutti gli indicatori che ne fornivano il sospetto. E infatti in alcuni casi è stata la commissione stessa a sospettare che fossero coinvolte nel sistema di tratta e a chiederci di fare dei colloqui approfonditi. Ricevere questo tipo di mandato per noi è stato un elemento nuovo, e anche questo si è rivelato un compito assai difficile, perché stabilire un rapporto di fiducia con le donne sopravvissute a una storia di tratta richiede molto tempo, e noi avevamo invece tempistiche strettissime. Alla fine, 7 ragazze tra le 13 che Be free ha sentito in maniera approfondita hanno ottenuto la protezione e sono state inserite in alcune strutture presenti sul territorio romano.

Sono emerse quindi delle criticità.
Delle criticità molto forti, sì. Una è che queste donne sono state proprio respinte, quindi non hanno avuto solo un decreto di espulsione ma anche un decreto di respingimento, senza che ci sia stato un processo di identificazione virtuoso volto a comprenderne le storie. Tempistiche così strette non risultano compatibili con l’emersione di casi di sfruttamento e di tratta, ci vuole tempo per aprirsi e avere fiducia. E in questo caso c’erano tutti gli elementi per pensare che queste donne, la maggior parte tra i 20 e i 25 anni di età, tutte scarsamente alfabetizzate, avessero alle spalle storie di forte violazione dei diritti umani e quindi non potessero essere ascritte alla semplice categoria di “migranti economiche” – anche se la distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo da un lato e migranti economici dall’altro è di per sé poco adeguata.

Ci sono state poi delle criticità relative al fatto che si è trattato di detenzione amministrativa: le donne non conoscevano il motivo per cui si trovavano nel centro. Quindi il lavoro iniziale è consistito proprio nel contenere le loro frustrazioni, il loro terrore di essere subito rimpatriate e di non conoscere quale fosse il proprio destino. Abbiamo fatto delle assemblee con queste ragazze dentro al C.I.E., nel corso delle quali spiegavamo loro, con l’aiuto anche di altre associazioni, perché si trovavano lì, che cosa stava succedendo e quali potevano essere gli strumenti di tutela per poter evitare il ritorno forzato in Nigeria.

Che tipo di relazione si è instaurata con le ragazze?
Una relazione che tutt’ora ha bisogno di essere costruita e rafforzata. Una ragazza appena sbarcata non si fida dell’operatrice che ha davanti. Prima di tutto perché è bianca. Poi perché non c’è consapevolezza dei ruoli. “Chi è questa persona davanti a me? È un’operatrice? È una poliziotta, una giudice? Una che mi aiuta o una che mi fa rimpatriare?”, si chiede. Scardinare delle aspettative così forti è difficile perché non si è ancora costruita una relazione di fiducia.

Con le ragazze che hanno ottenuto la protezione, questo rapporto si è andato fortificando perché hanno visto che noi abbiamo lavorato per loro, con loro, anche con molta difficoltà, e quindi è stato per noi importante andarle a prendere a Ponte Galeria, portarle nei centri preposti e in alcuni casi accompagnarle anche nel percorso di regolarizzazione, quindi in questura, parlare con loro del futuro e di quello che possiamo fare insieme per costruire una vita diversa in Italia. Si è creata poi proprio una rete un po’ formale e un po’ informale, che ha permesso di cercare anche soluzioni alternative.

Si sono strette molte relazioni, ad esempio con LasciateCIEntrare, La clinica legale di Roma Tre, le volontarie e le attiviste che si sono spese per accompagnare le donne in questura. È tutto molto in itinere. Il fatto che noi non abbiamo un centro per donne vittime di tratta ci ha portato a inserirle in altri centri in cui però noi vorremmo mantenere il ruolo di filo conduttore rispetto al fatto che siamo quelle che le hanno tolte dal C.I.E., e trovando un equilibrio che faccia capire loro che siamo tutte dalla stessa parte, senza scavalcare il buon lavoro e le competenze delle strutture di protezione, ma cercando di mantenere questo filo anche molto intenso. Penso alla cena organizzata il 12 ottobre da Lucha y siesta per festeggiare le ragazze rimaste in Italia, e devo dire che vederle in una situazione conviviale dove hanno anche cantato e ballato, dopo averle viste imprigionate, è stato molto forte.

Cosa succederà ora alle ragazze rimpatriate?
Di loro si sta occupando La clinica legale di Roma Tre, che sta cercando di seguirle. Il momento del rimpatrio è stato straziante perché non conoscevamo neanche la lista precisa delle donne che dovevano essere rispedite in Nigeria. Tra l’altro si è verificata una situazione particolare che ha visto la presenza di attiviste e attivisti all’aeroporto e nello stesso momento le avvocate e gli avvocati dentro al tribunale che chiedevano ai giudici di ottenere le sospensive. Quello che è accaduto è che con i telefonini venivano mostrate le sospensive in tempo reale e alcune ragazze scendevano di conseguenza dall’aereo.

E a quelle rimaste in Italia?
Per le richiedenti asilo c’è stata una mobilitazione per inserirle nei circuiti dello Sprar (il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati). Delle ragazze che invece hanno ottenuto la protezione se ne stanno occupando le nostre avvocate penaliste perché in caso di tratta c’è tutta una procedura da seguire che comprende anche una denuncia-querela. Ma adesso è troppo presto per una denuncia, sia perché le notizie riportate da queste ragazze sono ancora poco dettagliate, sia perché l’interpretazione più diffusa dell’articolo 18 prevede che lo sfruttamento sessuale deve avvenire su suolo italiano, e in questo caso non c’è stato neanche il tempo.

Spesso i trafficanti sono sia nel paese d’origine che in quello di destinazione, cosa rischiano queste donne?
Rischiano tantissimo. Spesso chi le recluta nel loro paese d’origine è la stessa persona che poi loro incontrano in Italia. Oppure si tratta di fratelli, sorelle, cugini o anche delle madri delle persone che le aspettano in Italia. È una rete molto capillare da cui non si sfugge tanto facilmente, anche perché il fenomeno dello sfruttamento si è evoluto, e le nostre leggi invece sono abbastanza vecchie, quindi non si riesce a dare conto delle evoluzioni del fenomeno. Siamo sempre un passo indietro.

C’è il rischio che queste donne vengano sottoposte a ricatti da parte di una rete così capillare?
Loro hanno un debito da pagare, un debito di viaggio, è questo il primo ricatto. E non sanno le cifre esatte. Sono abituate a contare in naira, la moneta nigeriana, e invece una volta in Italia viene detto loro che si tratta anche di 30 o 60 mila euro, cifre assai gonfiate rispetto alle spese dei trafficanti per farle arrivare. Un altro ricatto molto frequente è il rito giùgiù, che viene fatto loro in Nigeria alla presenza di un sacerdote. Vengono prese delle parti del corpo o che sono abitualmente a contatto con il corpo – capelli, peli del pube o delle ascelle, sangue mestruale, slip, unghie delle mani – e messe dentro un sacchetto, e viene fatto un giuramento.

La donna deve giurare che mai tradirà chi la sta aiutando ad andare in Italia, pena la morte o la persecuzione. Questo sacchetto lo tiene il sacerdote o il trafficante e funziona come fortissimo deterrente per le ragazze nigeriane, che hanno una paura enorme di questo rito perché le pone di fronte alla minaccia da parte dei trafficanti, che potrebbero quindi fare del male a loro e alle loro famiglie. Quelle che tornano in Nigeria rischiano di essere ritrafficate, o di essere emarginate dalla comunità o anche di essere uccise.

La vicenda delle ragazze nigeriane può essere un’occasione per stimolare la riflessione e l’azione in termini di miglioramento delle politiche?
C’è una questione di interconnessione tra vittime di tratta, richiedenti asilo e rifugiati, ed è ora che questa interconnessione possa essere gestita al meglio in un dialogo sempre più serrato con le istituzioni. E poi ci sono delle domande, a cui secondo me istituzioni e società civile devono trovare delle risposte: quale accoglienza per queste ragazze? Devono essere inserite nelle strutture “articolo 18”? Negli Sprar?

Il fatto che non abbiano la consapevolezza di cosa le aspetta, cioè lo sfruttamento, le rende meno vittime di tratta delle altre? Il fatto che abbiano un permesso di soggiorno diverso da quello per protezione sociale cosa comporta? Sono adeguati gli Sprar per le vittime di tratta o si può lavorare per un miglioramento? E se le ragazze scappassero dalle strutture, è giusto far ricadere su di loro la nostra incapacità di adattarci alle loro esigenze e la nostra capacità di combattere i trafficanti? Queste sono le domande che io e le altre operatrici ci siamo fatte.

Claudia Bruno, Ingenere

NOTE

[1] In Italia il sistema di assistenza e protezione sociale per le vittime di tratta è previsto dall’art.18 del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo n. 286/98) e succ. Art. 27 (recante le Norme di attuazione)

17 Set, 2015

Ponte Galeria, si fermi subito il rimpatrio

Sono molto preoccupata per le notizie che riguardano una ventina di donne portate dal Centro di Ponte Galeria all’Aeroporto per essere rimpatriate. Una situazione che appare confusa e priva del minimo rispetto della persona umana: incertezza e approssimazione rispetto al destino di queste persone.

Sono stata piu’ volte al Cie, constatando un contesto emergenziale, che mi ha portato a presentare una Mozione in Regione per chiederne l’immediata chiusura.

Si colga la complessità del fenomeno migratorio che sta interessando l’Europa. A nessuno puo’ sfuggire che c’è una urgenza di cui farsi carico attraverso operazioni di accoglienza come i corridoi umanitari necessari a far bene e presto.

10 Set, 2015

Accoglienza: detenzione ed espulsione

Lunedì 12 Ottobre, ore 17.30
Casa Internazionale delle Donne
Via della Lungara, 19 – Roma

La vicenda delle 66 donne nigeriane, trafficate in Libia e approdate a Lampedusa e su altre coste siciliane questa estate, brucia ancora nella coscienza della parte più sensibile della società civile.

Sono state condotte come “clandestine” nel C.I.E. di Ponte Galeria (Roma) senza essere messe in condizione di richiedere asilo politico (pur essendo identificabili in maniera immediata quali vittime di tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale).

Successivamente una buona parte di loro ha subito l’espulsione. Per altre, che sono riuscite ad ottenere lo status di rifugiate politiche, appare assai complesso l’inserimento nei percorsi di protezione previsti dal diritto internazionale e dalla legislatura italiana.

Contemporaneamente, per la popolazione migrante che arriva sulle nostre coste per sfuggire alle guerre e alle persecuzioni il sistema di “accoglienza” si dota di hotspot, hub chiusi e hub aperti che sono sostanzialmente luoghi di detenzione.

Si intensificano i voli per il rimpatrio, si immaginano classificazioni perentorie quanto improponibili tra migranti “politici” e migranti “economici”, Frontex stringe sempre di più le barriere difensive intorno ad una Europa inaccogliente.

BeFree cooperativa sociale contro tratta violenze discriminazioni, che nell’ambito del suo “storico” lavoro all’interno del C.I.E. di Ponte Galeria ha seguito alcune delle nigeriane vittime di tratta su mandato della Commissione Territoriale per il diritto di asilo, insieme alla Campagna LaciateCIEntrare ed alla Casa Internazionale delle Donne, invitano al Convegno
ACCOGLIENZA: DETENZIONE ED ESPULSIONE

INTRODUCONO
Oria Gargano, BeFree – Francesca Koch, Casa Internazionale delle Donne – Gabriella Guido, portavoce Campagna LaciateCIEntrare

BREVI PRESENTAZIONI
Hot Spots: Fulvio Vassallo Paleologo, Clinica legale per i diritti umani (CLEDU), Universita’ di Palermo
Tratta di Esseri Umani: Francesca De Masi, BeFree
Accoglienza: Yasmine Accardo, referente territori campagna LasciateCIEntrare

DISCUSSIONE APERTA
moderata da Loretta Bondì, BeFree

POLITICA E ISTITUZIONI: Helena Behr, Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale. Marta Bonafoni, Regione Lazio. Celeste Costantino, Parlamentare, SEL. Francesca Danese, Assessore Politiche sociali, salute, casa ed emergenza abitativa Comune di Roma. Corrado de Rosa, DPO. Eleonora Forenza, Parlamento EU, L’altra Europa con Tsipras. Mariagrazia Giammarinaro, Special Rapporteur Onu sul traffico degli esseri umani. Lucia Iuzzolini, SPRAR. Roberto Leoni, vice prefetto del Governo di Roma. Gennaro Migliore, Presidente commissione parlamentare di inchiesta sull’accoglienza. Elisabetta Rosi, Consigliere della Corte di Cassazione. Tiziana Zannini, Dpo.

ASSOCIAZIONI: Bianca Benvenuti, Centro Operativo Diritto d’Asilo. Suor Eugenia Bonetti, Slavensnomore. Casa delle Donne Lucha y Siesta. Donatella D’Angelo, Cittadini del Mondo. Jacopo di Giovanni, avv. Daniela Di Rado, CIR. Stefano Giulioli, Comune di Roma, Roxanne. Enrica Rigo, Clinica del Diritto RomaTre. Giorgia Serughetti, ricercatrice. Vittoria Tola, Referente Nazionale UDI.

19 Dic, 2014

Cie Ponte Galeria: situazione delicata, sull’accoglienza è arrivato il momento della chiarezza

Al Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria siamo in un momento delicato, c’è un passaggio di consegne tra la vecchia e la nuova gestione all’interno del Cie e gli ospiti lamentano alcuni cambiamenti contingenti che a noi che siamo “fuori” potrebbero sembrare minuzie e diventano invece dirimenti questioni di dignità e di diritti dentro al Centro: da giorni gli uomini non si fanno la barba e non hanno il sapone e lo spazzolino da denti, non riescono ad avere vestiti puliti e in diversi sono vestiti con il “kit” estivo, ciabatte e pantaloncini al freddo di questi giorni, le donne ci è stato detto lamentano l’assenza di fornitura di assorbenti igienici.
Inoltre gli stranieri del Cie hanno un problema con il pocket money – per le sigarette, le telefonate – che è passato da 3,5 euro a 2,5 euro al giorno, una sottrazione di un euro al giorno che in quel contesto è molto significativa.

Oggi nel Centro sono ospitati 76 uomini e 22 donne. Il cambio di gestione dalla cooperativa Auxilium alla società Gepsa è avvenuto cinque giorni fa: i disagi e la tensione latente che abbiamo riscontrato oggi sono dunque sicuramente dovuti al recente avvicendamento, ma anche a una gara vinta “al ribasso” dalla nuova gestione. Il personale è passato dalle 67 unità di prima alle circa 35 di adesso, con turni di copresenza diurni di 7 persone, che scendono a 3 la notte. E tutto non per inadempienze della Gepsa, ma rispettando il capitolato della gara bandita dalla Prefettura di Roma.

Proprio il tema della qualità e della trasparenza delle gare per gli appalti delle strutture per migranti e rifugiati è saltato all’attenzione della cronaca con l’inchiesta Mafia Capitale: un elemento in più per farci dire oggi che su queste materie va ripensata completamente la politica nazionale.

Anche per questo due giorni fa ho presentato un’interrogazione in Regione per chiedere al Presidente Zingaretti di inoltrare al governo e al Viminale la nostra domanda di chiarezza e informazione: nella nostra regione esiste il Cie di Ponte Galeria ed esiste il Cara di Castelnuovo di Porto, sono sorte inoltre durante Mare Nostrum e in particolare durante gli ultimi mesi strutture che ospitano temporaneamente migranti in transito di cui non conosciamo nulla: ubicazione, capienza, gestione. Credo sia un diritto-dovere degli amministratori regionali invece avere contezza di ciò che accade nei propri territori, per la vigilanza e per garantire i diritti sia agli stranieri trattenuti che alla popolazione residente.

08 Mag, 2014

Salvini dice che i Cie non servono? Infatti, vanno chiusi

Matteo Salvini, facendo visita alla struttura di Ponte Galeria, si chiede se i Cie servano. Noi a questa domanda abbiamo già risposto da tempo con una mozione presentata in Consiglio regionale per chiedere la chiusura di questi luoghi aberranti, dove i diritti umani vengono negati, vere e proprie carceri a cui sono costretti uomini e donne colpevoli solo di “essere” qualcosa, come dice Salvini dei “clandestini”, senza aver commesso reati.

Forse le persone trattenute, a forza, nei Cie non dovrebbero ricevere neppure vitto e alloggio? Addirittura non avere un medico che possa curarli? Il segretario della Lega dovrebbe provare sulla propria pelle come vive un ‘detenuto’ del Cie, senza un nome, un diritto, una speranza per il futuro. Non è mettendo i cittadini migranti contro i cittadini italiani che si possono risolvere i problemi del nostro Paese, e neppure ottenere una svolta sulle politiche migratorie europee.

Su una cosa però occorre dare indirettamente ragione al “Salvini Furioso” in campagna elettorale. Come lui stesso ha constatato oggi con i suoi occhi a Ponte Galeria la legge Bossi-Fini, che porta il nome del fondatore della Lega e che ha rilanciato i Cie in modo potente e convinto, non solo ha fallito, visto che da quando è in vigore solo lo 0,9% degli stranieri arrivati in Italia è stato respinto nei suoi Paesi d’origine, ma sta anche pensando sulle spalle dei contribuenti per una cifra stimata pari ad almeno 55 milioni l’anno.

01 Apr, 2014

Se questo è un uomo

È stato testimone oculare della protesta delle bocche cucite a Ponte Galeria e si è impegnato attivamente per cercare una soluzione. Grazie a una richiesta di sospensiva, oggi è fuori dal Cie, con la speranza di tornare ad essere un uomo libero. Il 28 marzo, Lassad, cittadino tunisino da 22 anni in Italia, è intervenuto a un convegno che si teneva presso Palazzo della Giunta Regionale del Lazio (si trattava di un incontro organizzato per presentare la mozione della consigliera regionale Marta Bonafoni in cui si chiede la chiusura di Ponte Galeria e l’attivazione, nel frattempo, di un monitoraggio sul centro) e ha raccontato cosa significa trovarsi un quei “manicomi a cielo aperto” che sono i Cie. Ecco cosa ha detto.

«Vivo in Italia da 22 anni. Gran parte della mia storia è qui. Me ne sono capitate tante e tanti sbagli li ho fatti, ma li ho pagati. Poi mi capita che stavo rientrando con le buste della spesa, mi fermano degli agenti, mi chiedono i documenti e mi portano al volo a Ponte Galeria, in quel posto che chiamate Cie. Mi sveglio la mattina, faceva freddo, era dicembre e mi ritrovo 13 uomini che si erano cuciti la bocca per protestare. Ecco, una storia così ti segna l’anima, non te la togli di dosso. Ti accorgi di essere in una specie di lager, un lager che esiste perché ogni vita ha un prezzo. Quello che viene dato a chi ci tiene dentro. Mi pare siano 41 euro. La nostra vita costa 41 euro, cosa è 41 euro, il valore in borsa, il numero delle scarpe, è calcolato in base al nostro peso, allo spazio che occupiamo?

 

Non lo so. Ditemelo perché io non trovo le parole per capirlo. Un prezzo per le nostre sofferenze, voi che siete entrati dentro avete visto in prima persona il prodotto che è valutato in base a un prezzo. Io no, non mi stupisco di niente, mi sembra di vivere negli anni Quaranta per quello che mi hanno raccontato e per quello che ho letto. Sento un vento gelido di destra che soffia forte e da ogni parte.
Che vi devo dire? Il mondo è bello fuori, basta non calpestare i diritti di chi ti sta vicino. Io mi sento una specie di pesce fuori dall’acqua. Non ho più un paese, non sono né di qua né di là, quale dovrebbe essere la mia casa. E come non ricordare quelle scene, quelle urla, io restavo con la bocca aperta. Queste cose sapevo che succedevano 70 anni fa. E penso alla Storia. È fatta per essere messa nei libri o per essere ricordata, bisogna battere un colpo verso il mondo.

Oggi ero alla fermata della metro di Rebibbia, vicino il carcere, c’erano manifesti molto belli con persone che scavalcavano un muro e una scritta, “Liberi tutti”. Sante parole. Eppure sento dire tante cavolate, sento dire che è stata abolita la schiavitù ma credo che grandi come Lincoln si rivolterebbero nella tomba. Quanti secoli ancora dobbiamo aspettare per non dare più un prezzo ad una vita umana cari miei? Dio crea le persone e le persone vengono vendute e comperate, sono quotate sul mercato. Chi lo avrebbe mai detto che ci saremmo ridotti così.

Oggi sono fortunato, sono seduto al posto del Presidente della Regione, ho conosciuto tanta brava gente, ciò che fate voi dà un senso alla mia e alla vostra vita. Altrimenti siamo tutti inutili, finiamo in un mondo meschino, è per gente come voi che riesco a dormire la notte. Voi siete persone che stanno rimpiazzando Fanon. Lo sapete cosa diceva? Diceva che nel mondo esiste chi è pro e chi è contro, e la causa principale si chiama razzismo.

Forse non sono ancora tempi per il fascismo ma dobbiamo stare attenti, non mi sbaglio perché dobbiamo far capire che la diversità è una risorsa e dobbiamo saperla sfruttare e ascoltare, non marchiarla. La diffidenza è la madre di tutte le cazzate. Scusatemi se parlo in maniera così confusa, ma così posso dire tutto quello che ho dentro. Io sono fuggito tante volte per vivere, Ponte Galeria, Trapani, Regina Coeli e poi ancora Trapani. Ho camminato per 80 chilometri lungo la ferrovia per andarmene lontano da lì. Poi mi hanno ripreso a Roma e non ci ho capito più nulla.

Il tempo non passava mai, dovevo tenere la testa allenata e ho cominciato a contare. La gabbia in cui stavamo ha 206 sbarre, giri intorno al perimetro e le luci ti fanno perdere la ragione, di notte non distingui i colori, tutto ti sembra grigio. E io contavo: la lunghezza della gabbia è di 18 passi e mezzo, la larghezza di 8 passi e mezzo, il corridoio è di 128 passi. Non vi basta? Di notte speravo che spegnessero le luci per poter vedere le stelle, io le distinguo, cercavo di vedere l’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore invece di guardare le telecamere che stanno dappertutto. Mi dicono che il Cie non è un carcere e ci chiamano ospiti. Ma io ero solo un fottuto numero con cui mi chiamavano ogni giorno, sono questi gli ospiti? Ma perché non me lo hanno tatuato addosso il numero invece di dire parole finte sul trattenimento, invece di parlare di valori che esistono solo sulla carta e che ci scivolano addosso. Non posso pensarci, stavo camminando tranquillamente per strada e mi sono ritrovato in un manicomio a cielo aperto.

Io debbo molto anche ai giornalisti, alcuni sono anche qui presenti. Ho saputo che nel 2011 il ministro dell’Interno aveva fatto una circolare per impedirvi di entrare, come mai? Non voleva farvi vedere quello che ho vissuto io? Quello che hanno vissuto gli altri? Di solito se un funzionario dello Stato compie un errore così grande si va a vedere se ne ha fatti altri, con questo Ministro è avvenuto? Credo di no, perché altrimenti avreste potuto aggiustare le leggi, cambiarle, riempirle di valori. Ma noi siamo solo gli oggetti, le merci per un business, di mezzo c’è l’economia che secondo me è corrotta.

Sembra che in Italia a troppi convenga restare così, ma ancora si può evitare di cadere nell’abisso, si possono impedire altre disgrazie. Trovate un rimedio, trovatelo voi, troviamolo insieme, non è colpa mia se da tunisino sono nato nella parte sbagliata del Mediterraneo.
Si è capito che i Cie non funzionano, lo ha detto bene il dottore che ha parlato prima di me (Alberto Barbieri, di Medu Ndr), ha parlato di ingiustizie e di soldi sprecati, di una istituzione che non serve. Se non lo capiscono gli altri o non lo accettano non va bene. Si continuerà a produrre sofferenza per tutti, per chi è dentro, per i parenti di chi è dentro, molti hanno mogli e figli in Italia, per tutti quelli che temono ogni giorno di essere presi e rinchiusi per nulla, senza aver fatto niente di male.

La vita di quelli come me è una continua roulette russa da cui non possiamo uscire. Dateci una possibilità di vivere regolarmente, di lavorare, di darvi una mano a far crescere questo Paese. Un giorno ci ringrazierete. Ma oggi, e voglio concludere, mi avete dato una speranza, se farete un monitoraggio continuo nel centro, ne potrete aiutare tanti a Ponte Galeria e scoprirete tante cose che non vanno. Scoprirete anche che ad esempio, può sembrare una cosa da niente, ma lì non c’è uno psichiatra mentre la gente impazzisce. C’è in carcere, a volte c’è in caserma, perché in un posto dove si sta tanto male non ce ne è uno?»

Lassad
Corriere delle migrazioni

15 Mar, 2014

Sui Cie non si deve abbassare la guardia

È stata approvata un paio di settimane fa, dal consiglio comunale di Roma, la mozione che propone la chiusura del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria. Si tratta di un’azione che riprende quella del Consiglio comunale di Torino che aveva approvato una mozione simile con la quale impegnava «il sindaco e la giunta comunale a chiedere ufficialmente al Governo di chiudere nel più breve tempo possibile il Cie di Corso Brunelleschi».
La stessa proposta è stata presentata da Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio, che auspica che la discussione avvenga il prima possibile.

Non si sa che esito avranno tali mozioni ma sicuramente rappresentano un altro tentativo, l’ennesimo, di far passare il messaggio che i Cie ormai hanno dimostrato la loro inefficienza. A dimostrazione di ciò, basta citare un dato, reso noto di recente dal Rapporto di Medici per i Diritti Umani: ovvero che appena il 47% delle persone trattenute nei Cie nel 2013 sono state rimpatriate. Ciò equivale allo 0,9% del totale delle persone straniere irregolari presenti in Italia.

Attualmente i trattenuti sono circa 450 a fronte di costi davvero ingenti. E a rendere tutto ciò ancora più grave è la condizione di precarietà in cui vivono le persone lì dentro. Il Cie è un carcere che non è un carcere, un orribile non luogo, immerso nel non tempo: una sorta di oscena e feroce matrioska, dove una gabbia contiene un’ altra gabbia al cui interno si trova una successione di gabbie, cancelli, serrature. Il risultato è uno solo: si tratta di «strutture sempre più inutili e afflittive».

Da una settimana, inoltre, è online la petizione promossa da change.org in cui vengono proposti quattro motivi per il superamento del sistema dei Cie. La chiusura di questi posti è, tutt’oggi, lontana e pare sia molto difficile che ci si possa arrivare con un atto normativo. Intanto, però, otto di essi sono già stati chiusi a causa delle precarie condizioni in cui versavano, e non tutti verranno riaperti.

È importante, quindi, che azioni come quella dei consigli comunali di Torino e di Roma continuino ad essere portate avanti, anche se la loro valenza rimarrà solo simbolica.
Lo stesso vale per le iniziative di concessione della cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia portate avanti da molte amministrazioni comunali.

Si tratta di cittadinanza onoraria che ha un doppio significato: riconoscere che la cittadinanza non è solo una procedura burocratica in cui l unico criterio valido è quello della permanenza regolare ininterrotta dalla nascita alla richiesta; dimostrare che l attuale normativa che regola la materia, la 91 del 1992 è da riformare. Essa, infatti, esclude dal riconoscimento della cittadinanza numerose persone che in Italia sono nate e cresciute e che si sentono più vicine alla cultura italiana che a quella di origine.

Luigi Manconi, Valentina Brinis e Valentina Calderoni, l’Unità
13 marzo 2014

14 Mar, 2014

Cie: le ragioni di una mozione, i doveri di un’istituzione

Venerdì 28 marzo, ore 9.30-13.30
Sala Tevere – Regione Lazio
Via Cristoforo Colombo, 212

Cie: le ragioni di una mozione, i doveri di un’istituzione
Cronache e prospettive dal Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria

A partire da una mozione presentata al Consiglio Regionale del Lazio per sollecitare al Governo la chiusura del Centro di espulsione di Ponte Galeria e chiedere, nel frattempo, il monitoraggio e il controllo delle condizioni delle persone trattenute, alla luce dalle esperienze di associazioni e istituzioni che operano nel settore, una discussione per evidenziarne criticità e individuare tipologie di interventi attuabili.

Ore 9.30 – Saluti del Vicepresidente della Giunta Regionale, Massimiliano Smeriglio

Intervengono
Alberto Barbieri, Medu (Medici per i Diritti Umani)
Valentina Calderone, Associazione “A Buon Diritto”
Francesca De Masi, Associazione “Be Free”
Gabriella Guido, Campagna LasciateCIEntrare
Igiaba Scego, scrittrice e giornalista

Ore 11.30 – Coffe break

Serena Lauri, avvocata
Stefania Ragusa, Direttrice di Corriere delle Migrazioni
Fabio Ciconte, Terra! Onlus

Ore 12.30 – Dibattito

Ore 13.00 – Conclusioni di Marta Bonafoni, Consigliera Regionale e promotrice della mozione

Coordina i lavori
Stefano Galieni

25 Feb, 2014

EU 013. L’ultima forntiera

Mercoledì 5 marzo, ore 16.30
Sala della Protomoteca
Campidoglio – Roma

ultima_frontiera

Proiezione e dibattito sui Centri d’identificazione ed espulsione

“EU 013 L’Ultima Frontiera” è il primo film documentario girato all’interno dei Centri d’identificazione ed espulsione italiani (C.i.e.), dove ogni anno circa 8mila persone vengono trattenute per un periodo di tempo che arriva fino a 18 mesi, in regime di detenzione amministrativa, cioè senza avere commesso un reato penale e senza essere stati giudicati nel corso di un processo.

Protagonisti sono gli agenti della Polizia di Frontiera e i migranti irregolari. Grazie alla collaborazione con il Ministero dell’Interno, le telecamere sono riuscite a entrare dove nessuno era arrivato prima. Dalla sala d’attesa del Terminal 3 dell’aeroporto di Fiumicino dove vengono fatti sostare gli stranieri in attesa del respingimento, alle gabbie dei centri dove avvengono i rimpatri forzati.

Interverranno:

Erica Battaglia, Presidente V commissione Politiche Sociali
Francesco D’Ausilio, Capogruppo PD assemblea capitolina
Gianluca Peciola, Capogruppo Sel assemblea capitolina
Marta Bonafoni, Consigliera regionale “Per il Lazio”
Raffaella Cosentino, autrice e giornalista
Alessio Genovese, regista
Stefano Galieni, campagna LasciateCIEntrare

Modera: Luciana Cimino, giornalista

EU 013 l’Ultima Frontiera è stato realizzato dagli autori Raffaella Cosentino e Alessio Genovese, alla regia, grazie al sostegno di Open Society Foundations. Il film è stato girato all’aeroporto internazionale di Fiumicino, al porto di Ancona, e nei C.i.e. di Roma, Bari e Trapani.

Il documentario è stato presentato alla 54esima edizione del Festival dei Popoli di Firenze e all’International Film Festival di Rotterdam (Official Selection).