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13 Apr, 2017

Il nuovo che avanza

Luigi Manconi, Il Manifesto

Tre notizie. La prima proviene dal circuito politico-mediatico e riporta le parole del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, esponente di 5 Stelle e possibile candidato premier di quel partito: «L’Italia ha importato dalla Romania il 40% dei loro criminali».

Ora, dico io, ma si può – superata l’acerba età dell’adolescenza e della beata innocenza – esprimersi in termini così grossolani? E con ricorso tanto sgangherato a cifre malamente lette e ancor più malamente interpretate? Questo per dire che al peggio non c’è mai fine e per farsi già ora un’idea di cosa può riservarci il nuovo che avanza.

La seconda notizia giunge dal Parlamento e annuncia che ieri Camera e Senato hanno approvato in via definitiva i cosiddetti decreti Minniti-Orlando sul contrasto all’immigrazione illegale e sulla sicurezza urbana. Si tratta di una normativa che ha sollevato molte e robuste perplessità perché presenta forzature e strappi rispetto al nostro ordinamento giuridico, tali da configurare vere e proprie lesioni nel sistema di garanzie e diritti.

Si arriva al punto di prevedere per gli stranieri una giustizia minore e diseguale, se non una sorta di «diritto etnico» – e uso questa formula con autentico disagio -, che stabilisce significative deroghe alle garanzie processuali comuni. E infatti l’abolizione dell’appello, tutt’ora previsto anche per le liti condominiali e per le sanzioni amministrative, indebolisce gravemente il diritto alla difesa: per quanto riguarda il soggetto più vulnerabile tra tutti (il profugo) e per quanto riguarda un diritto inviolabile della persona, tutelato dalla nostra Costituzione, come il diritto d’asilo.

Un’altra pesante limitazione al sistema delle garanzie, viene determinata dalle nuove norme sulla sicurezza urbana. L’introduzione della flagranza differita produce un perverso ossimoro: l’immediatezza, propria della flagranza, viene dilatata e prorogata fino a 48 ore, precariamente supportata da immagini videoregistrate, che sostituirebbero l’attualità delle procedure di arresto all’atto del compimento del reato.

Inoltre, si estendono ulteriormente le misure di prevenzione (limitative della libertà personale, benché basate non sulla commissione di reati ma su meri sospetti sulla persona) e si introduce la nuova misura dell’allontanamento da (e del divieto di accesso a) determinati luoghi per esigenze di tutela del decoro urbano. Anche questa forma di “daspo”, applicabile persino ai minori, è una misura che solo formalmente può dirsi amministrativa, dal momento che la sua sostanza incide fortemente sulla libertà, non solo di movimento.

C’è, infine, un inequivocabile segnale del carattere innanzitutto declamatorio di queste misure. È possibile, infatti, che simili provvedimenti non siano principalmente indirizzati nei confronti dei senza fissa dimora, ma è pressoché inevitabile che a essi in primo luogo verranno applicati.

E allora qualcuno dovrebbe avere la cortesia di spiegare come faranno i trasgressori – quell’umanità costituita da emarginati, non garantiti, senza tetto, affetti da tutte le patologie e da tutte le dipendenze – a pagare la sanzione pecuniaria, fino a 300 euro, prevista per chi violi «i divieti di stazionamento e di occupazione di spazi».

Per queste ragioni, Walter Tocci e io, come già facemmo a proposito del decreto sull’immigrazione, ieri non abbiamo votato la fiducia al governo in materia di sicurezza urbana.

La terza notizia non so se già può definirsi buona, ma va considerata senza dubbio promettente. In senso proprio: annuncia, cioè, qualcosa che ha tutte le premesse per realizzarsi. Sempre ieri, sempre tra Camera e Senato, mentre Luigi Di Maio si arrampicava sulle sue scempiaggini, e mentre venivano approvati i provvedimenti su immigrazione e sicurezza, si teneva una affollatissima conferenza stampa per presentare la campagna «Ero straniero. L’umanità che fa bene».

La campagna sostiene un disegno di legge di iniziativa popolare che intende superare la Bossi-Fini e introdurre una serie di norme tra le quali i permessi di soggiorno temporanei per la ricerca di occupazione, la reintroduzione del sistema dello sponsor, la regolarizzazione su base individuale degli stranieri integrati, alcune misure per l’inclusione attraverso il lavoro dei richiedenti asilo e l’abolizione del reato di clandestinità.

Il progetto, promosso in primo luogo da Emma Bonino e Don Virginio Colmegna, ha incontrato l’adesione attiva di un amplissimo numero di associazioni, movimenti, operatori e numerosi sindaci. Dunque, mentre il discorso pubblico sull’immigrazione continua a oscillare tra toni foschi e rappresentazioni catastrofiste, tra cronache criminali e allarmi sociali, qualcosa infine si muove. Se la politica, quasi tutta la politica, sembra volersi sottrarre alle proprie responsabilità, altri soggetti e altre culture cominciano a muoversi. Non è ancora troppo tardi.

31 Mar, 2017

Migranti, la schizofrenia del governo sui diritti umani

Raffaele  K. Salinari*, Il Manifesto

Un colpo al cerchio e uno alla botte: la contemporanea approvazione al Senato del Decreto legge Minniti-Orlando, e della nuova normativa di protezione per i Minori stranieri non accompagnati (Misna), prima firmataria l’On. Sandra Zampa del Pd, introduce per legge una schizofrenia in materia di rispetto dei Diritti umani che suscita non poche preoccupazioni. Da una parte, infatti, il decreto costruisce e costituisce una serie di procedure decisamente contrarie al fondamento giuridico irrinunciabile per ogni Diritto che sia erga omnes, e dunque democratico, cioè il principio costituzionale: la legge è uguale per tutti.

Dall’altra il nostro Paese si mette in condizioni, finalmente, di tradurre in legge ciò che ha approvato, sottoscritto e ratificato già nel lontano 1989 con la Convenzione Onu sui Diritti dei minori.

La contraddizione tra le due normative è talmente palese da creare una schizofrenia tale da compromettere il sistema giuridico nel suo complesso. Il Decreto, lo hanno detto sia associazioni, sia giuristi, tratta i migranti come esseri umani diversi, che non hanno il diritto a poter seguire le stesse norme previste per i cittadini a parte intera. A queste persone viene così, di fatto, amputata una parte di umanità.

Attraverso la riduzione dei gradi di giudizio, infatti, è come se alla loro «nuda vita», alla loro dignità, per usare delle categorie biopolitiche care a Foucault, venisse attribuita una scadenza, una sorta codice a barre impresso sui corpi al momento del loro arrivo, un marchio innessivo il loro stesso status di richiedenti asilo, creando così una condizione che deve essere evasa velocemente perché la garanzia che li mantiene nel novero degli umani scade, e dunque la merce va restituita velocemente al mittente. Ma a parte la riduzione dei gradi di giudizio, è la logica del «respingimento comunicativo» che pesa oltremodo su queste nuove procedure.

Si antipatizza con i richiedenti asilo sin da subito, non solo mettendoli in Centri creati appositamente per seguire la nuova normativa anticostituzionale, ma facendogli capire che sono strutture il cui scopo non è sostenere il loro diritto ad avere uno status che gli sarebbe dovuto per il solo fatto di essere arrivati sin qui fuggendo a costo della vita le loro situazioni d’origine, bensì che dovranno essere loro a fornire l’onere della prova, sottoponendoli ad una giustizia contra reo che li ritiene colpevoli di truffa ai danni dello stile di vita nazionale, sino a che non siano in grado di dimostrare la verità della loro condizione umana.

È evidente, e se ne sono accorti anche i Senatori – che comunque hanno risposto al vecchio adagio Senatori probi viri Senatus mala bestia – che introducendo una forma parallela di giustizia, tribunali speciali inclusi, si costituisce un piano inclinato che potrebbe includere nella sua logica altri settori e fasce sociali rispondenti, un domani, agli stessi criteri di umanità dimezzata o problematica, non da espellere magari, ma da confinare in strutture segregate.

Certo una nota positiva resta l’approvazione sulla protezione dei Minori non accompagnati. Solo una osservazione a questo proposito: le associazioni che hanno sostenuto la legge, e fornito ai legislatori le esperienze concrete su cui basarsi, hanno sempre fatto rilevare che, in materia di Diritti umani, e di minori in particolare, bisogne essere non solo giusti, ma anche lungimiranti: accogliere e rispettare oggi il diritto di un bambino, significa domani crescere un cittadino democratico e rispettoso di quelle stesse regole di convivenza civile che lo hanno voluto tale, senza nessuna distinzione.

*Presidente Terre des Hommes

30 Mar, 2017

Una profonda lesione nel sistema dei diritti

Luigi Manconi, Il Manifesto

Una giustizia minore e un diritto diseguale. L’approvazione, ieri, del decreto Orlando-Minniti sancisce l’introduzione nel nostro ordinamento di una sorta di diritto «etnico» per cui ai cittadini stranieri extracomunitari è riservata una corsia giudiziaria «propria» con deroghe significative alle garanzie processuali comuni.

Deroghe non giustificabili in alcun modo con le esigenze di semplificazione delle procedure di riconoscimento della protezione internazionale. È questa la ragione principale che ha indotto me e Walter Tocci a non partecipare al voto di fiducia richiesto dal governo sulle misure di «Accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, e per il contrasto dell’immigrazione illegale».

Con questo gesto abbiamo inteso esprimere il nostro giudizio fortemente negativo su un provvedimento di legge che introduce una profonda lesione nel nostro sistema di garanzie. Una normativa che, appunto, non prevede appello per il richiedente asilo che ha ricevuto un diniego alla domanda di protezione.

La possibilità di impugnare i provvedimenti adottati dalle Commissioni territoriali è limitata al primo grado e fortemente affievolita poiché, salvo casi eccezionali, non è previsto il contraddittorio: ovvero che il richiedente asilo compaia davanti al giudice e possa esercitare pienamente il suo diritto alla difesa.

Così una procedura che regola tutte le iniziative giudiziarie, comprese le liti condominiali, il furto di un chinotto in un supermercato e l’opposizione a una sanzione amministrativa, non viene applicata nel caso di un diritto fondamentale della persona, come la protezione internazionale, riconosciuta dalla nostra Costituzione.

L’alterazione di questa procedura e la sua riduzione a due gradi di giudizio ha conseguenze ha conseguenze pesanti sulla vita dei richiedenti asilo e sui diritti di cui sono titolari. Ne discende che un principio determinante per il nostro sistema di garanzie, vigente nell’intero ordinamento, viene negato proprio ai soggetti più vulnerabili.

E volendo entrare ancor più nel merito della questione, quanto emerge nel corso del colloquio del richiedente asilo davanti alla Commissione territoriale, in alcuni casi e per una serie di ragioni, potrebbe non bastare per disegnare il quadro completo della vita di quella persona e far emergere gli aspetti più delicati da un punto di vista umanitario.

A questo serve l’udienza col giudice, e la presenza di un certo numero di esiti favorevoli al richiedente asilo in quella sede con il conseguente riconoscimento di una forma di protezione, nonostante la decisione della commissione territoriale, non può che confermare quanto sia indispensabile garantire quell’impianto complesso – con il contraddittorio e con i suoi tre gradi di giudizio – previsto dal nostro ordinamento.

Le esigenze di riduzione dei tempi di queste procedure, dato il contesto difficile e faticoso in cui il nostro Paese si sta muovendo e si muoverà nei prossimi anni, non vanno certo trascurate. Superare tutti i limiti evidenti emersi nella gestione del fenomeno migratorio deve essere un obiettivo per tutti perché migliorerebbe le condizioni di vita non solo dei migranti, ma anche dei territori coinvolti nell’accoglienza. Ma il risparmio del tempo nelle procedure non può corrispondere a un risparmio di garanzie e diritti.

20 Mar, 2017

Nelle foreste fra Turchia e Bulgaria: “Qui fermiamo l’invasione dell’Islam”

Francesca Paci, La Stampa

Passo veloce e il più possibile felpato, braccia sulla testa a protezione dai rami, bocche cucite. Per intercettare i migranti che dal confine turco cercano di entrare in Bulgaria si avanza in colonna fin dentro la foresta di Strandzha e poi via, sparpagliati in gruppi di tre. Chi trova dei «presunti profughi», come li chiamano i volontari del BNOShipka, avverte i compagni con il cellulare e chiama la polizia di frontiera.

«Dato che il governo non fa nulla, a parte obbedire alla Merkel e lasciar entrare chiunque dichiari una nazionalità a caso, ci pensiamo noi: da quattro anni presidiamo le montagne per proteggere dai terroristi e dall’invasione pianificata da Erdogan il nostro Paese e l’intera Europa». Vladimir Rusev è il comandante di questi 65 bulgari in mimetica e passamontagna che hanno parcheggiato le auto targate Varna, Burgas, Stara Zagora, Plovdiv e Dalgopolin in una radura vicino Yasna Polyana, a 30 km dal confine, per dare il cambio al turno precedente.

Ex ufficiale dell’esercito in pensione, il pluridecorato Rusev gestisce una società d’intelligence e security specializzata in zone di conflitto e anima il BNOShipka, il movimento nazionalista intitolato alla città simbolo della vittoria bulgaro-russa sugli ottomani di Sulayman Pascià. «Par-ti-gia-ni», scandisce. Guai a definirli miliziani o «cacciatori»: «Non portiamo armi, non arrestiamo nessuno, rispettiamo la legge che autorizza i cittadini a impedire i crimini e considera un crimine varcare illegalmente il confine».

Le lattine di Red Bull e fagioli turchi abbandonate lungo il ruscello nascosto tra gli alberi segnano la strada. Da quando l’accordo tra Ankara e Bruxelles ha sigillato la rotta balcanica e in particolare la Grecia, ai migranti non restano che il mar Mediterraneo o i boschi bulgari per affidarsi ai trafficanti e puntare all’Europa del nord. Rusev, fluente in russo, greco, turco ed ebraico, sostiene di averne respinti migliaia dei 10 mila che si fanno sotto ogni mese, moltissimi passando da Zvezdez.

«I rifiuti servono anche da segnaletica per l’appuntamento con chi li porta in Serbia o per indicare il percorso a chi segue» spiega Attila, 35 anni, bagnino.

L’identikit del volontario di BNOShipka è sintomatico del malessere che si porta dentro un paese passato per 5 secoli di dominazione ottomana, 45 anni di dittatura sovietica e, nel 2007, il sogno di un salvifico destino europeo naufragato sulla transizione dal socialismo reale pagata a dosi massicce di disoccupazione, la fuga dei cervelli, la corruzione endemica. C’è il muratore 30enne Ilia convinto che dietro i profughi ci sia una strategia destabilizzante «guidata da americani e da ebrei».

Kamal, musulmano, che vuole tenere l’Isis lontano da casa impacchettando la frontiera come un’opera del connazionale Christo. Todor, 35enne, impiegato delle ferrovie e nemico dell’«Islam colonizzatore» quanto simpatizzante di Putin. Tikhamir, fioraio, deluso da Bruxelles che «non ha trasformato la Bulgaria nella Svezia e ora la vorrebbe come Raqqa». E poi ancora l’avvocato europeista Lachezar felice di aver archiviato il giogo sovietico e deciso a non finire in quello coranico, Siliane che a 67 anni marcia e raccoglie erbe per curare eventuali ferite, la disoccupata Asia arruolatasi perché «i bulgari guadagnano 150 euro e gli immigrati molto di piu». Dai 20 ai 30 anni c’e di tutto: 800 persone a rotazione giorno e notte che non ricevono un soldo e si pagano la benzina.

S’intravede lo spettro dell’Islam dietro le quinte di questa caccia nella foreste, lo stesso riconoscibile nei mal di pancia politici del Paese che a novembre ha eletto il nuovo presidente filo-russo Rumen Radev e il 26 marzo voterà per il rimpiazzo del parlamento dopo le dimissioni del premier europeista Borisov. E poco importa che la etnicamente omogenea Bulgaria da 7 milioni di abitanti ospiti oggi ufficialmente tra i 7 e i 15 mila migranti in 6 campi aperti e 2 centri chiusi e che, per questo, abbia appena ricevuto dall’Ue 150 milioni di euro. La notizia più diffusa sui social è quella degli incidenti di novembre nella struttura di Harmanli, dove risiedono 3 mila richiedenti asilo.
«Il BNOShikpa ha più consensi fuori che dentro al Paese e si muove ai margini della legislazione bulgara» ci dice il direttore dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Sofia Radoslav Stamenko. Capita che i suoi uomini, come quelli di Amnesty International o del Bulgarian Helsinki Commitee, incrocino metaforicamente le spade con i volontari del comandante Rusev: gli attivisti pro-migranti chiamano la guardia di frontiera e gli altri, anziché essere aiutati dalle forze dell’ordine come vorrebbero, devono mostrare i documenti per provare di essere regolari.

«Dobbiamo contrastare le cosiddette organizzazioni umanitarie che addestrano i migranti a entrare illegalmente in Europa, ma più ci demonizzano e più cresciamo tra la gente, contiamo già 20 mila membri e 40 mila sostenitori» racconta l’agricoltore Ivan al termine della seduta di flessioni ed esercizi di autodifesa in cui si mira alle gambe e non alla testa. In realtà non ce n’é mai stato bisogno, e neppure del coltello che tutti portano alla cintura:

«Quando i migranti vedono la mimetica si bloccano, hanno paura, al massimo provano a scappare. Noi comunque, sapendo che in Turchia si comprano perfino le famiglie, ci prendiamo cura delle rarissime donne e dei bambini, sapendoli vittime, e consegniamo gli uomini alla polizia. Quasi nessuno è un vero rifugiato. E poi, dovremmo aver compassione di chi “compra” i ragazzini per sconfinare? Abbiamo almeno 4 mila minori non accompagnati negli orfanotrofi bulgari».

Piove. Il terreno è scivoloso. È ora di spostarsi a ridosso del confine, a Brodilovo, dove, con regolare permesso, i volontari aiutano la costruzione della barriera, appena 67 km dei 230 che si snodano lungo il confine turco e degli altri 570 lungo quello greco. I tre varchi ufficiali sono deserti. Non lontano, oltre lo sguardo, qualcuno terrorizzato aspetta probabilmente la notte nascosto tra alberi e cespugli.

04 Mar, 2017

“Sgomberare non serve, per loro il ghetto significa lavoro”

Gianmario Leone, Il Manifesto

“Purtroppo quanto accaduto ieri notte è soltanto l’ultimo episodio: i morti nei ghetti del foggiano sono già 4 negli ultimi mesi e sono una triste routine che si è consolidata nel corso degli anni. Solo in Puglia, tra grandi e piccoli, se ne contano oramai una trentina”.

A parlare è Leonardo Palmisano, etnografo, docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Bari ed autore del saggio «Ghetto Italia», scritto a quattro mani con Yvan Sagnet, con il quale hanno vinto il prestigioso premio Livatino 2016. Un lungo viaggio nei ghetti italiani, dal Piemonte alla Puglia, per denunciare come i braccianti immigrati in Italia siano sempre più spesso vittime di un caporalato feroce, che li rinchiude in veri e propri «ghetti a pagamento», in cui tutto ha un prezzo e niente è dato per scontato, nemmeno un medico in caso di bisogno.

04 Mag, 2016

I muri nel cuore d’Europa e i fantasmi del Novecento

Nadia Urbinati, La Repubblica

L’Europa è nata sul diritto di movimento, E’ stata voluta da ex-nemici mortali che si impegnarono a garantire la libertà di movimento ai loro concittadini, per rendere i confini porosi e infine, con il Trattato di Shengen, aperti agli europei e, seppure con minore certezza, agli immigrati col permesso di soggiorno dei rispettivi Paesi.