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25 Mar, 2014

RU486 in day hospital, passaggio fondamentale per la salute delle donne

E’ una decisione importante quella assunta oggi dalla giunta Zingaretti riguardante la somministrazione della pillola RU486 in regime di day hospital, che va nella direzione di salvaguardare la salute della donna e il suo diritto di scelta in merito all’interruzione di gravidanza.

Un atto atteso da tempo dalle donne della nostra Regione, che peraltro nel 76% dei casi fino a oggi rifiutavano il ricovero ospedaliero di tre giorni precedentemente previsto contestualmente all’uso della pillola.

Con la delibera di oggi quindi da una parte veniamo incontro alle richieste delle associazioni di donne, specie le più giovani, che da anni chiedevano un approccio più “europeo” all’aborto farmacologico, dall’altra allineiamo il Lazio ad altre Regioni italiane quali l’Emilia Romagna e l’Umbria. Il tutto senza alcun approccio ideologico, ma anzi sostenuti dall’evidenza scientifica della corretta somministrazione della RU486 in day hospital.

Una decisione, quella di oggi, che rappresenta da parte della giunta Zingaretti un passo di civiltà e di rispetto nei confronti delle donne e che unitamente all’imminente rilancio dei consultori pubblici fanno della Regione Lazio un’istituzione veramente vicina ai diritti e alla salute delle proprie cittadine.

23 Mar, 2014

Metropolis – RomaUno

Mercoledì 2 aprile, ore 21.00

Mercoledì 2 aprile, sarò ospite del programma di approfondimento “Metropolis” di Roma Uno, per un’intera puntata dedicata alla delibera della giunta regionale che autorizza la somministrazione in day Hospital della pillola Ru486.

La trasmissione andrà in onda in diretta alle 21 su Roma Uno (canale 11 del digitale terrestre, frequenza 518 di Sky).

Con me, ospiti in studio, la ginecologa Lisa Canitano dell’associazione Vita di donna e il presidente del forum famiglia, Gambino.

15 Mar, 2014

“Io, ginecologa degli aborti obiettrice mio malgrado”

“Sola, abbandonata in quella trincea, tagliata fuori dalla carriera e costretta a fare aborti come in una catena di montaggio, senza più nessun contatto con le pazienti, emarginata dall’ospedale che ha sempre considerato il mio un lavoro degradante, ho fatto l’unica scelta possibile ma che avevo sempre respinto: mi sono dichiarata obiettrice”.
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05 Dic, 2013

Aborto indietro tutta

Racconta Andrea Cataldi: “Era martedì e io ero a letto con una tonsillite. In soggiorno mia moglie, alla diciottesima settimana di gravidanza cerca di tenere a bada il nostro primogenito Daniele non le concede tregua (…) Nella frenesia si fa largo il trillo di un telefono che non avremmo voluto sentire”. Simona alza una cornetta “che non avrebbe dovuto alzare”. Dall’altro capo l’ospedale di Ascoli Piceno, la città dove vivono, con i risultati dell’amniocentesi: “Dovremmo parlare con voi”. E arriva “il buio, all’improvviso”.
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10 Ott, 2013

Obiezione di coscienza, pagano le donne

In Italia la possibilità di abortire è sancita dalla legge 194, voluta dai cittadini col referendum. Ma 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza, e quindi farlo in ospedale è sempre più difficile. Così molte italiane vanno all’estero, fanno su e giù per la Penisola o ricorrono all’aborto clandestino.

Da 540 a 1.330 sterline per l’aborto farmacologico, da 670 a 1.770, a seconda delle settimane, per quello chirurgico. Prenotazioni 24 ore su 24, sette giorni su sette, online. Le italiane che si rivolgono al British Pregnancy Advisory Service sono migliaia, tanto che in Inghilterra le richieste seguono solo quelle delle irlandesi. E poi la Svizzera, la Francia, con gli ospedali di Nizza che non accettano più nostre connazionali, perché ormai sono la metà di quelle che richiedono un intervento. E chi non può permettersi di pagare, fa il suo pellegrinaggio su e giù per la Penisola tentando di mendicare un diritto, fino ad arrivare alla clandestinità. Fino a morire.

«Ero alla decima settimana, ma all’ospedale di Palermo mi hanno detto che non ero più in tempo. A causa della lista d’attesa avrei di certo superato le 12 settimane e cinque giorni previsti come limite. E così solo partita da sola, con un treno, verso nord», la voce di Maria si incrina «fa male, ti fanno sentire in colpa. Abortire è doloroso, farlo in Italia ancora di più». Perché nel nostro Paese la possibilità di abortire è sancita da una legge, la 194, voluta dai cittadini che si sono espressi con un referendum, ma farlo è sempre più difficile.

Sette ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza, in continuo aumento e con percentuali che superano l’80 per cento nel Sud. A Napoli quanto è morto il ginecologo del Policlinico Federico II hanno dovuto interrompere il servizio, a Roma solo un medico su dieci non è obiettore, e in molti presidi, come quelli di Treviglio o Montichiari, il tasso di obiezione arriva al cento per cento.

«La legge diventa inapplicabile e il problema non riguarda solo le interruzioni volontarie di gravidanza, ma soprattutto gli aborti terapeutici» spiega Lisa Canitano, ginecologa dell’associazione Vita di donna, no profit che fornisce assistenza e consulenza per la salute delle donne. «Sono madri che desiderano la gravidanza, ma davanti a gravi malformazioni vogliono interromperla e lo fanno con molta sofferenza». La legge prevede che si possa effettuare dopo i 90 giorni, causa ‘rischio psicofisico materno’, ma «servono medici ospedalieri, non si possono chiamare da fuori, e accade che molti obiettori proibiscano l’intervento anche solo se loro sono di turno e fanno altro».

Una follia considerando che l’amniocentesi, un esame che serve proprio per diagnosticare eventuali anomalie, è effettuato anche in strutture cattoliche come il Policlinico Gemelli di Roma. E a farlo sono medici obiettori, che trovano molto nobile praticare una ricerca così sofisticata. Peccato sia un esame che presenta complicanze, compresa la morte del feto. Eppure se una donna assume questo rischio e sfortunatamente si riscontra una malformazione, lo stesso medico obiettore si rifiuta di praticare l’aborto. Contraddizioni del Belpaese in cui l’esercizio di convinzioni etico-religiose compromette l’erogazione di una prestazione medica sulla carta garantita.

La scelta di abortire un figlio che si voleva è orribile, ma girando per le corsie e le associazioni la realtà da affrontare lo è ancora di più. «Devi sperare in un parto prematuro e sperare che muoia. Ti costringono a passare dal parto oppure devi fare la pazza. Un dottore mi ha detto: ‘si butti in un pronto soccorro, faccia la pazza e vedrà che dopo la perizia psichiatrica la fanno abortire’, si rende conto? E io Luca lo desideravo, lo volevo, avevo già preso le tutine azzurre». La storia di Linda è la storia di tante future mamme costrette a vivere un dramma o a emigrare all’estero in cerca di cure.

Sottovoce una ginecologa racconta che un po’ di tempo fa una paziente è dovuta andare in Grecia e pagare 4 mila euro per abortire. «Le si era rotto il sacco a quattro mesi. Quando accade ci dovrebbe essere l’aborto terapeutico perché il bambino non sopravvivrà e la madre rischia di morire, ma in un noto ospedale cattolico della Capitale, in cui tutti erano obiettori, si sono rifiutati di intervenire. E hanno detto no anche i medici di altri ospedali laici. Meglio non mettersi nei guai con una paziente a rischio. Alla fine è arrivata una dottoressa greca, si sono accordate per il pagamento. Per abortire se ne è andata ad Atene».

E dire che stando ai dati della relazione ministeriale 2012 sullo stato d’attuazione della legge 194, gli aborti sono in calo: meno quattro per cento solo nell’ultimo anno e le minori italiane si classificano al primo posto come le più accorte tra le ragazzine europee. Sembrerebbe una buona notizia, quasi miracolosa considerando le poche campagne informative sulla contraccezione, se non fosse che gli aborti spontanei sono in aumento, 75 mila nel 2011 quelli dichiarati all’Istat, uno su tre pare frutto di interventi casalinghi finiti male. E nell’Italia dell’interruzione volontaria di gravidanza legale si ritorna alla clandestinità. Le ultime stime, mai aggiornate dal 2008, parlano di ventimila aborti illegali. Quelli reali forse sono il doppio o anche di più. Perché chi non ha i soldi per spostarsi alla ricerca di un diritto negato, non ha scelta.

Lo sanno bene negli ospedali delle periferie dove le più giovani, le migranti, le prostitute arrivano in fin di vita, con emorragie e infezioni. Farmaci abortivi di contrabbando, ambulatori clandestini gestiti dalla mafia cinese, istruzioni su internet su come poter trovare medicinali a base di misoprostolo lamentando dolori all’ulcera o reumatismi, spiegazioni su quante pillole prendere e su come espellere il feto nel bagno di casa. Molte ragazzine italiane fanno così, che i consultori sono sempre meno e se entrano in un pronto soccorso per essere dimesse i sanitari devono avvertire i genitori. Del resto se la pillola del giorno dopo, che non è un farmaco abortivo, ma contraccettivo, non viene prescritta ad una deputata dal medico di Montecitorio, figurasi ad una donna fragile e in difficoltà. E non va meglio con l’Ru486, la pillola abortiva. «Ero alla quinta settimana e avevo deciso che la pillola sarebbe stato il modo più veloce e meno invasivo per terminare questa gravidanza indesiderata.

Impossibile trovare informazioni chiare su cosa fare per reperirla. Finalmente tramite un’ostetrica e Vita di donna riesco a capire che devo recarmi al San Camillo, unico ospedale a Roma, ma molto presto e con delle analisi delle urine che attestino la gravidanza. Quanto presto non si sa, suggeriscono le sette. Arrivo presto, ma c’era gente dalle cinque del mattino e le persone che visitano per prendere la pillola sono solo dieci, ma la danno solo a cinque. Dopo quattro ore, mi fissano un appuntamento due settimane dopo, cioè quando avrei rischiato di andare oltre il tempo massimo», racconta Anna, giovane madre di due bimbi. «L’Italia scandalosamente è all’ultimo posto nel ricorso alla metodica farmacologica tra i Paesi dove si pratica l’aborto legalmente. In barba alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» tuona Mirella Parachini dell’associazione Luca Coscioni.

Per il Movimento per la Vita meglio così perché «lascia sole le donne, inducendole a sofferenze molto simili all’aborto clandestino». Di certo è inaccessibile a gran parte delle donne e le poche che riescono ad assumerla devono rimanere in ospedale tre giorni. Tre giorni di ricovero che pesano sulle casse di un Sistema Sanitario Nazionale già in crisi. Eppure in Svizzera la stessa pillola, al costo di 600 euro, viene data in uno studio privato. «Prendi la prima pasticca davanti al dottore, firmi un foglio e la seconda la assumi dopo tre giorni a casa tua in Italia» spiega Anna.

Oltre a non garantire a ogni donna le stesse possibilità di accedere alla legge, l’alta percentuale di obiettori comporta poi costi aggiuntivi per le strutture: perché se i medici regolarmente assunti rifiutano di praticare l’aborto, allora l’ospedale deve ricorrere agli esterni con la chiamata ‘a gettone’.Una spesa che solo in Lombardia ammonta ogni anno ad oltre 300 mila euro.

Ad ammettere che ci sia «qualche criticità», è lo stesso ministro della Sanità Beatrice Lorenzin che ha parlato di una «distribuzione inadeguata del personale» fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. Avvierà un monitoraggio e cercherà una via per la ridistribuzione del personale, ma la situazione pare più complicata. Il Movimento 5 Stelle è arrivato a chiedere di modificare la legge e prevedere che ogni struttura ginecologica pubblica assuma la maggioranza del personale tra i non obiettori, ma bisognerebbe capire che fare con il personale già assunto e soprattutto ci sarebbe il rischio di una modifica restrittiva della legge.

Che fare poi se un medico nel tempo cambia idea e diventa obiettore? Fino ad oggi oltre alle convinzioni personali, sembra che molti lo facciano per ragioni di carriera, una scelta per non essere discriminati. «Se si assumono medici con la condizione di fare interruzioni di gravidanza poi non li si può licenziare perché fanno obiezione, ma se fossero militari e diventassero testimoni di Geova il problema non si porrebbe. Evidentemente l’esercito è molto più “Stato” rispetto alla sanità, che troppo spesso è terra di nessuno» nota una ginecologa esasperata dalla situazione. Una terra di nessuno in cui si lascia al caso l’applicazione di una legge.

Silvia Cerami, L’Espresso

24 Set, 2013

Donne migranti e IVG

Diminuiscono gli aborti in Italia, ma le donne immigrate sono in controtendenza.

I Paesi che in Europa hanno il più basso tasso di abortività sono Svizzera, Germania, Olanda, Belgio e Italia. Ma anche se in Italia dal 1983 a oggi è il numero delle Ivg è diminuito del 50% risultano ancora alti i tassi per le donne straniere. Qual è la causa di questa differenza?

Il quadro statistico  di riferimento
Dalle relazioni che ogni anno fornisce il Ministero della Salute sull’applicazione della legge 194 risulta dal 1983 al 2011 siamo passati da un tasso di abortività su mille gravidanze dal 27,5 al 16,3, portando a una diminuzione effettiva del 40 per cento. Quando si parla di donne migranti il discorso si complica. A livello di numeri assoluti dal 1995 ad oggi il numero delle Ivg è sicuramente cresciuto: prima, su cento interruzioni di gravidanza, 6.6 erano riconducibili a straniere. Oggi sono 34. Ma se andiamo a guardare i dati Istat, risulta che il tasso di abortività delle donne provenienti dai paesi a forte pressione migratoria dal 2003 al 2009 è sceso con lo stabilizzarsi dell’esperienza migratoria.

Rimane però più elevato, come abbiamo già detto, rispetto a quello delle italiane. Le classi di età divergono: rispetto alle italiane che si attestano maggiormente tra fasce iniziali e finali del ciclo riproduttivo, le migranti sono maggiormente presenti nelle fasce centrali (18/34 anni). Le altre differenze sono relative al livello di istruzione (medio alto per le italiane e medio basso per le migranti), e lo stato civile: tra le migranti sono soprattutto le donne sposate a ricorrere alla 194.  Altro dato divergente è rispetto alle Ivg ripetute: tra le straniere l’incidenza è doppia rispetto alle italiane.

Perché le cose vanno così
«Le donne italiane sono maggiormente consapevoli dei mezzi di contraccezioni come la pillola, tipica del nostro sistema», spiega Mara Tognetti, docente di sociologia all’Università Bicocca di Milano e autrice del libro La salute delle immigrate. «In altri paesi si ricorre ad altri tipi di anticoncezionali. Per esempio, la spirale in Sud America, utilizzata anche in età giovanile. C’è pure il ricorso ad iniezioni anticoncezionali che hanno durata di sei mesi. Noi non possiamo “leggere” le Ivg delle italiane come quelle che avvengono tra le donne immigrate». Le motivazioni sono varie: «Le condizioni migratorie», prosegue Tognetti, «non sempre consentono di avere figli: c’è il rischio di perdere il lavoro;  alle volte non hanno una rete di supporto o sostegno, il nostro welfare pensa sempre che ci sia una famiglia dietro una donna».

Altri cause possono essere ricercate nella instabilità abitativa o di coabitazione. Una relazione stabile incide come gli aspetti economici. «Ma ci sono donne che si trovano a fare aborti ripetuti perché mosse dal bisogno, in larga parte inconsapevole, di dimostrare di essere ancora fertili».  Il contesto di provenienza ovviamente ha un peso: «Non bisogna dimenticare che le popolazioni vengono da contesti differenti con politiche demografiche diverse. In Cina la politica del figlio unico ha segnato generazioni di donne per cui l’ivg è considerato un normale mezzo di contraccezione. Questo vale anche per molte donne del Est Europa». E questo è un fattore che può spiegare come mai tra alcune nazionalità ci sia un numero più alto di IVG ripetute.

Caso studio: le romene di Arezzo
Proprio questa situazione cioè le Ivg ripetute tra le straniere ha portato alcune amministrazioni e le aziende sanitarie locali (Asl) ad interessarsi del fenomeno. All’interno di “Vivere insieme: quarto rapporto sull’immigrazione e i processi di inclusione in provincia di Arezzo” curato da Oxfam c’è un capitolo dedicato alla situazione delle  donne rumene. «Questa ricerca» spiega la ricercatrice Giovanna Tizzi «è stata fortemente voluta dalla Asl per vari motivi. Le IVG ripetute sono pericolose per la salute disica e psichica delle donne, ma incidono anche molto sulla psesa sanitaria». Rappresentano inoltre una sorta di fardello frustrante per gli operatori: «Più volte le operatrici sanitarie ci hanno detto che si domandano come sia possibile, dove sbagliano».

Lo studio evidenzia che a ricorrere maggiormente alle interruzioni di gravidanza sono, nell’ordine, provenienti da Perù, Nigeria, Romania, Moldavia, Cina. Hanno in media un’età compres tra i 28 e i 40 anni e spesso hanno fatto  la prima Ivg nel paese d’origine. I motivi che portano a tale scelte sono solitamente riconducibili ad una situazione socioeconomica sfavorevole, problemi con il partner o una maternità già realizzata. Viene riscontrata con frequenza anche una conoscenza  non adeguata dei metodi contraccettivi. Ma per quanto riguarda le rumene emerge una specificità: durante la dittatura di Ceausesco era di fatto vietato usare anticoncezionali e l’Ivg è stata legalizzata nel 1989. Non ci sono state che in epoca recentissima percorsi educativi e preventivi. I prezzi dei contraccettivi sono stati per molto tempo proibitivi. Rimangono ancora i luoghi comuni sulla pillola (fa ingrassare, aumenta la peluria, ecc.) e sugli altri metodi che ne rendono difficoltoso l’uso.

Vittime di Tratta
In altri casi invece i problemi sono strettamente legati al contesto politico culturale di arrivo: è il caso delle vittime di sfruttamento sessuale. Il tipo di vita a cui sono sottoposte fa si che siano particolarmente a rischio di Ivg ripetute, sia per irregolarità dello “stile di vita”, sia per le ripercussioni psicologiche che tale situazione comporta, sia per il costo dei contraccettivi. Nel loro caso gli operatori consigliano sempre il preservativo oltre che ad altri metodi anticoncezionali ma non sempre il cliente è d’accordo o alle volte l’offerta di somme più alte le convince a non prendere precauzioni. «Questa situazione fa sì che tra le persone che seguiamo con la nostra unità di strada, ci siano state donne che sono ricorse alle Ivg ripetute varie volte, anche sette o otto» osserva  Lisa Bertini della Cooperativa Cat di Firenze. «Oltre alle difficoltà derivanti dallo sfruttamento c’è anche il problema legato all’assenza di un permesso di soggiorno.

Quando la legge 194 è stata pensata non c’era ancora un flusso significativo di migranti nel Paese per cui i documenti non erano un problema». Il tesserino Stp (straniero temporaneamente presente) risolve in parte le difficoltà dato che comprende tra le visite mediche essenziali quelle legate alla maternità e all’Ivg. Però… «Succede che certe strutture ospedaliere chiedano anche un documento di identità, per i motivi più disparati, che spesso le vittime di tratta non possiedono», prosegue Bertini. «Questa difficoltà di accesso possono condurre al ricorso ad aborti clandestini, con tutto ciò che ne deriva in termini di rischi per la salute».

Aborti autoindotti
Uno degli incrementi registrati riguarda la pratica dell’aborto autoindotto, spesso attraverso l’assunzione di farmaci ad hoc acquistati attraverso reti illegali.  In molti casi queste situazioni vengono presentate come aborti spontanei. Da notare che, mentre tra le italiane l’indicatore degli aborti spontanei è rimasto invariato nel tempo, per le straniere e quasi quadruplicato passando dal 5% del 1998 al 17% del 2008. Non ci sono fonti certe visto la difficoltà a reperire informazioni in questi ambiti, ma sembra che farmaci che dovrebbero essere venduti solo con ricetta medica, siano recuperabili facilmente senza, tramite internet. Usati in dose massicce producono o facilitano un aborto spontaneo. Basta digitare il nome di uno di questi farmaci, che su google immediatamente spuntano fuori le istruzioni per l’uso abortivo. «Ma non sono i soli modi per procurarsi un aborto»,  dice  Bertini. «Per quanto riguarda le vittime di tratta alle volte ci pensano le mammane con i ferri o peggio gli sfruttatori con le botte che producono degli aborti che di spontaneo non hanno niente».

Consultori
Sono ampliamente utilizzati dai migranti. «E’ un dato più che evidente e storico, da sempre», afferma Tognetti. «E’ un servizio più che noto, in particolare per le donne del est Europa. Di facile accesso, a bassa soglia, è stato disponibile e flessibile nei confronti delle donne migranti. Ma non è sufficiente». Un altro problema è che le donne migranti tendono a rivolgersi ai consultori quando hanno un problema e mai con l’idea di fare prevenzione.  «Non fanno prevenzione, pap test anche dove ci sono dei protocolli strutturati e di facile accesso. D’altra parte c’è una diversa idee culturalmente di maternità, si pensi al mondo arabo e alla medicina cinese. E’ una questione rispetto alla quale dovremmo tutti interrogarci e anche porre questioni precise agli operatori, che spesso non sono preparati a trattare con utenze diverse da quelle autoctone».

Francesca Materozzi, Corriere Immigrazione
23 settembre 2013