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16 Ott, 2015

Frontiere chiuse e solidarietà. La storia di 66 nigeriane

 

Delle 66 ragazze nigeriane sbarcate quest’estate sulle coste siciliane e successivamente condotte come “clandestine” nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, meno di dieci sono riuscite a ottenere lo status di rifugiate politiche, nonostante probabilmente tutte abbiano avuto a che fare con storie di tratta.

Il loro inserimento nei percorsi di protezione previsti dal diritto internazionale e dalle leggi italiane appare al momento molto complesso, in un contesto di politiche europee sempre meno accoglienti nei confronti di migranti in fuga da guerre e persecuzioni.

Ne abbiamo parlato con Francesca De Masi, sociologa e operatrice di Be Free, cooperativa sociale che ha uno sportello nel C.I.E. di Ponte Galeria e che da anni si occupa di donne sopravvissute a situazioni di violenza domestica o a tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo. Proprio in questi giorni la cooperativa ha diffuso un appello rivolto al Presidente del Consiglio dei Ministri in occasione del meeting del Consiglio Europeo sui migranti, che si terrà il 15 e 16 ottobre, per chiedere politiche europee che tengano conto del fatto che la crisi dei rifugiati e dei richiedenti asilo non è affatto neutrale rispetto al genere.

Francesca, tu e la cooperativa Be Free avete avuto un ruolo chiave nella vicenda delle ragazze nigeriane, sui giornali ne sono state date notizie contrastanti e spesso poco chiare. Ci racconti cos’è successo da vicino?
Queste donne sono state condotte nel C.I.E. di Ponte Galeria il 23 luglio in seguito a un decreto di respingimento emesso dalla prefettura e dalla questura di Agrigento e Siracusa ed erano donne appena sbarcate sulle coste siciliane. Una volta arrivate nel centro hanno fatto richiesta d’asilo e sono state ascoltate dalla commissione a fine agosto. L’elemento dirompente di questa vicenda è stato prima di tutto l’alto numero di donne coinvolte nello stesso momento, poi il fatto che fossero state respinte, quindi che non ci fosse stato un percorso per capire che storie potevano avere, lo scopo era solo quello dell’identificazione e dell’espulsione.

Infatti, dopo le audizioni in commissione, per 40-45 di loro sono sono stati subito predisposti i rimpatri. Il 17 settembre è stato organizzato un volo da parte delle istituzioni preposte che le ha deportate a Lagos, in Nigeria. Uso il termine “deportazione”, che è lo stesso che hanno usato le ragazze, perché è indicativo del fatto che sono state prese e rimandate nel paese d’origine senza possibilità di appello o di reazione. Inoltre, non è stato dato il tempo alle ragazze di finire la procedura – che prevede l’audizione in commissione, in caso di diniego la possibilità di ricorso, e in caso di ricorso la possibilità di sospensiva, che è un documento del giudice del tribunale civile che stabilisce che finché non viene presa alcuna decisione sulla protezione della donna, la donna in questione risulta “sospesa” cioè non espellibile, perché in attesa di risposta del tribunale.

Quindi, anche se la prefettura e la questura non sono obbligate ad aspettare i tempi della sospensiva, la tempistica è stata troppo veloce. La volontà di espulsione era infatti chiara dall’inizio, perché quando sono arrivate, le ragazze sono state identificate dall’ambasciata nigeriana nel giro di uno o due giorni proprio ai fini dell’espulsione. L’unica volontà, insomma, era quella di metterle dentro al C.I.E. per rimpatriarle.

Quante sono le ragazze rimaste in Italia e quante quelle che sono state costrette a tornare in Nigeria?
Tutte e sessantasei hanno fatto richiesta d’asilo, ma solo una decina hanno ottenuto la protezione. Circa cinquanta invece sono state diniegate. Di queste, venti sono state rimpatriate, le altre trenta o sono ancora dentro al C.I.E. oppure gli avvocati hanno lavorato affinché ottenessero la sospensiva e quindi è stato possible farle uscire dal C.I.E. Tante sono state le associazioni, le avvocate e gli avvocati che si sono mossi in questo senso. Solo così è stato possibile farle uscire dal centro con un permesso di soggiorno e iniziare la procedura per la richiesta di asilo.

Qual è stato il tuo ruolo e quello della cooperativa e come siete riuscite a gestire questa complicata vicenda?
Noi, dal 2008, entriamo nel C.I.E. di Ponte Galeria ogni settimana tramite Fuori Giogo che è un progetto di emersione che vede come capofila la Provincia di Roma. Il progetto è finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità che ha il compito di gestire i progetti di emersione e di prima assistenza per le donne e gli uomini vittime di tratta e anche il cosiddetto “articolo 18”, vale a dire la parte relativa all’accoglienza e all’inserimento sociolavorativo di queste persone[1]. Il ruolo di Be Free è stato proprio quello di intercettare queste ragazze all’interno dello sportello che gestiamo nel centro di Ponte Galeria.

È stata una situazione molto difficile, perché erano tantissime e quindi non è stato possibile fare dei colloqui di approfondimento con tutte per comprendere se potessero essere effettivamente vittime di tratta, anche se c’erano tutti gli indicatori che ne fornivano il sospetto. E infatti in alcuni casi è stata la commissione stessa a sospettare che fossero coinvolte nel sistema di tratta e a chiederci di fare dei colloqui approfonditi. Ricevere questo tipo di mandato per noi è stato un elemento nuovo, e anche questo si è rivelato un compito assai difficile, perché stabilire un rapporto di fiducia con le donne sopravvissute a una storia di tratta richiede molto tempo, e noi avevamo invece tempistiche strettissime. Alla fine, 7 ragazze tra le 13 che Be free ha sentito in maniera approfondita hanno ottenuto la protezione e sono state inserite in alcune strutture presenti sul territorio romano.

Sono emerse quindi delle criticità.
Delle criticità molto forti, sì. Una è che queste donne sono state proprio respinte, quindi non hanno avuto solo un decreto di espulsione ma anche un decreto di respingimento, senza che ci sia stato un processo di identificazione virtuoso volto a comprenderne le storie. Tempistiche così strette non risultano compatibili con l’emersione di casi di sfruttamento e di tratta, ci vuole tempo per aprirsi e avere fiducia. E in questo caso c’erano tutti gli elementi per pensare che queste donne, la maggior parte tra i 20 e i 25 anni di età, tutte scarsamente alfabetizzate, avessero alle spalle storie di forte violazione dei diritti umani e quindi non potessero essere ascritte alla semplice categoria di “migranti economiche” – anche se la distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo da un lato e migranti economici dall’altro è di per sé poco adeguata.

Ci sono state poi delle criticità relative al fatto che si è trattato di detenzione amministrativa: le donne non conoscevano il motivo per cui si trovavano nel centro. Quindi il lavoro iniziale è consistito proprio nel contenere le loro frustrazioni, il loro terrore di essere subito rimpatriate e di non conoscere quale fosse il proprio destino. Abbiamo fatto delle assemblee con queste ragazze dentro al C.I.E., nel corso delle quali spiegavamo loro, con l’aiuto anche di altre associazioni, perché si trovavano lì, che cosa stava succedendo e quali potevano essere gli strumenti di tutela per poter evitare il ritorno forzato in Nigeria.

Che tipo di relazione si è instaurata con le ragazze?
Una relazione che tutt’ora ha bisogno di essere costruita e rafforzata. Una ragazza appena sbarcata non si fida dell’operatrice che ha davanti. Prima di tutto perché è bianca. Poi perché non c’è consapevolezza dei ruoli. “Chi è questa persona davanti a me? È un’operatrice? È una poliziotta, una giudice? Una che mi aiuta o una che mi fa rimpatriare?”, si chiede. Scardinare delle aspettative così forti è difficile perché non si è ancora costruita una relazione di fiducia.

Con le ragazze che hanno ottenuto la protezione, questo rapporto si è andato fortificando perché hanno visto che noi abbiamo lavorato per loro, con loro, anche con molta difficoltà, e quindi è stato per noi importante andarle a prendere a Ponte Galeria, portarle nei centri preposti e in alcuni casi accompagnarle anche nel percorso di regolarizzazione, quindi in questura, parlare con loro del futuro e di quello che possiamo fare insieme per costruire una vita diversa in Italia. Si è creata poi proprio una rete un po’ formale e un po’ informale, che ha permesso di cercare anche soluzioni alternative.

Si sono strette molte relazioni, ad esempio con LasciateCIEntrare, La clinica legale di Roma Tre, le volontarie e le attiviste che si sono spese per accompagnare le donne in questura. È tutto molto in itinere. Il fatto che noi non abbiamo un centro per donne vittime di tratta ci ha portato a inserirle in altri centri in cui però noi vorremmo mantenere il ruolo di filo conduttore rispetto al fatto che siamo quelle che le hanno tolte dal C.I.E., e trovando un equilibrio che faccia capire loro che siamo tutte dalla stessa parte, senza scavalcare il buon lavoro e le competenze delle strutture di protezione, ma cercando di mantenere questo filo anche molto intenso. Penso alla cena organizzata il 12 ottobre da Lucha y siesta per festeggiare le ragazze rimaste in Italia, e devo dire che vederle in una situazione conviviale dove hanno anche cantato e ballato, dopo averle viste imprigionate, è stato molto forte.

Cosa succederà ora alle ragazze rimpatriate?
Di loro si sta occupando La clinica legale di Roma Tre, che sta cercando di seguirle. Il momento del rimpatrio è stato straziante perché non conoscevamo neanche la lista precisa delle donne che dovevano essere rispedite in Nigeria. Tra l’altro si è verificata una situazione particolare che ha visto la presenza di attiviste e attivisti all’aeroporto e nello stesso momento le avvocate e gli avvocati dentro al tribunale che chiedevano ai giudici di ottenere le sospensive. Quello che è accaduto è che con i telefonini venivano mostrate le sospensive in tempo reale e alcune ragazze scendevano di conseguenza dall’aereo.

E a quelle rimaste in Italia?
Per le richiedenti asilo c’è stata una mobilitazione per inserirle nei circuiti dello Sprar (il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati). Delle ragazze che invece hanno ottenuto la protezione se ne stanno occupando le nostre avvocate penaliste perché in caso di tratta c’è tutta una procedura da seguire che comprende anche una denuncia-querela. Ma adesso è troppo presto per una denuncia, sia perché le notizie riportate da queste ragazze sono ancora poco dettagliate, sia perché l’interpretazione più diffusa dell’articolo 18 prevede che lo sfruttamento sessuale deve avvenire su suolo italiano, e in questo caso non c’è stato neanche il tempo.

Spesso i trafficanti sono sia nel paese d’origine che in quello di destinazione, cosa rischiano queste donne?
Rischiano tantissimo. Spesso chi le recluta nel loro paese d’origine è la stessa persona che poi loro incontrano in Italia. Oppure si tratta di fratelli, sorelle, cugini o anche delle madri delle persone che le aspettano in Italia. È una rete molto capillare da cui non si sfugge tanto facilmente, anche perché il fenomeno dello sfruttamento si è evoluto, e le nostre leggi invece sono abbastanza vecchie, quindi non si riesce a dare conto delle evoluzioni del fenomeno. Siamo sempre un passo indietro.

C’è il rischio che queste donne vengano sottoposte a ricatti da parte di una rete così capillare?
Loro hanno un debito da pagare, un debito di viaggio, è questo il primo ricatto. E non sanno le cifre esatte. Sono abituate a contare in naira, la moneta nigeriana, e invece una volta in Italia viene detto loro che si tratta anche di 30 o 60 mila euro, cifre assai gonfiate rispetto alle spese dei trafficanti per farle arrivare. Un altro ricatto molto frequente è il rito giùgiù, che viene fatto loro in Nigeria alla presenza di un sacerdote. Vengono prese delle parti del corpo o che sono abitualmente a contatto con il corpo – capelli, peli del pube o delle ascelle, sangue mestruale, slip, unghie delle mani – e messe dentro un sacchetto, e viene fatto un giuramento.

La donna deve giurare che mai tradirà chi la sta aiutando ad andare in Italia, pena la morte o la persecuzione. Questo sacchetto lo tiene il sacerdote o il trafficante e funziona come fortissimo deterrente per le ragazze nigeriane, che hanno una paura enorme di questo rito perché le pone di fronte alla minaccia da parte dei trafficanti, che potrebbero quindi fare del male a loro e alle loro famiglie. Quelle che tornano in Nigeria rischiano di essere ritrafficate, o di essere emarginate dalla comunità o anche di essere uccise.

La vicenda delle ragazze nigeriane può essere un’occasione per stimolare la riflessione e l’azione in termini di miglioramento delle politiche?
C’è una questione di interconnessione tra vittime di tratta, richiedenti asilo e rifugiati, ed è ora che questa interconnessione possa essere gestita al meglio in un dialogo sempre più serrato con le istituzioni. E poi ci sono delle domande, a cui secondo me istituzioni e società civile devono trovare delle risposte: quale accoglienza per queste ragazze? Devono essere inserite nelle strutture “articolo 18”? Negli Sprar?

Il fatto che non abbiano la consapevolezza di cosa le aspetta, cioè lo sfruttamento, le rende meno vittime di tratta delle altre? Il fatto che abbiano un permesso di soggiorno diverso da quello per protezione sociale cosa comporta? Sono adeguati gli Sprar per le vittime di tratta o si può lavorare per un miglioramento? E se le ragazze scappassero dalle strutture, è giusto far ricadere su di loro la nostra incapacità di adattarci alle loro esigenze e la nostra capacità di combattere i trafficanti? Queste sono le domande che io e le altre operatrici ci siamo fatte.

Claudia Bruno, Ingenere

NOTE

[1] In Italia il sistema di assistenza e protezione sociale per le vittime di tratta è previsto dall’art.18 del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo n. 286/98) e succ. Art. 27 (recante le Norme di attuazione)

17 Set, 2015

Ponte Galeria, si fermi subito il rimpatrio

Sono molto preoccupata per le notizie che riguardano una ventina di donne portate dal Centro di Ponte Galeria all’Aeroporto per essere rimpatriate. Una situazione che appare confusa e priva del minimo rispetto della persona umana: incertezza e approssimazione rispetto al destino di queste persone.

Sono stata piu’ volte al Cie, constatando un contesto emergenziale, che mi ha portato a presentare una Mozione in Regione per chiederne l’immediata chiusura.

Si colga la complessità del fenomeno migratorio che sta interessando l’Europa. A nessuno puo’ sfuggire che c’è una urgenza di cui farsi carico attraverso operazioni di accoglienza come i corridoi umanitari necessari a far bene e presto.

23 Dic, 2014

Ponte Galeria, “La Guantanamo italiana”, la situazione al Cie dopo il cambio gestione

Le sorti del personale della società Auxilium, che ha perso la gara d’appalto indetta dalla prefettura per il prossimo triennio. Al loro posto il Centro di identificazione ed espulsione viene oggi gestito da un raggruppamento di imprese guidato dalla francese GEPSA, società leader nella logistica di penitenziari e centri di detenzione. Un passaggio che pone diversi interrogativi e incide in maniera preoccupante sulle condizioni dei migranti e sulle prospettive degli ex-dipendenti.

ROMA – Il clamore delle inchieste sulla “Terra di mezzo” l’ha fatto passare in secondo piano, eppure quanto sta avvenendo al CIE di Ponte Galeria contribuisce a gettare una luce inquietante sulla gestione dei centri per migranti. Siamo alla mezzanotte di domenica 14 dicembre, quando decine di persone abbandonano il Centro di Identificazione e Espulsione, aperto nel 1999 all’estrema periferia romana. Non sono evidentemente i quasi 100 migranti trattenuti, bensì il personale della società Auxilium, che ha perso la gara d’appalto indetta dalla prefettura per il prossimo triennio. Al loro posto il CIE viene oggi gestito da un raggruppamento di imprese guidato dalla francese GEPSA, società leader nella logistica di penitenziari e centri di detenzione. Un passaggio che pone diversi interrogativi e incide in maniera preoccupante sulle condizioni dei migranti e sulle prospettive degli ex-dipendenti.

La telefonata. “Auxilium era mille volte meglio, chi gestisce oggi la struttura ha sottovalutato la situazione”. A dirlo non è stato uno dei dipendenti della società esclusa, ma Ibrahim (nome fittizio), che a Ponte Galeria è recluso da poche settimane. Raggiunto al telefono, ha raccontato nei dettagli gli effetti del cambio di gestione sulle condizioni dei migranti reclusi. “Nella sezione maschile siamo quasi 80, con dieci bagni alla turca che per i primi quattro giorni di gestione non sono stati mai puliti. Potete immaginare l’odore. Solo il 19 dicembre hanno portato la carta igienica, mentre fino ad ora non è stato ripristinato il servizio di barberia e non possiamo quindi rasarci da cinque giorni”.

La storia di Ibrahim. Accento romano marcato, Ibrahim è arrivato in Italia 24 anni fa, da ragazzino. Come molti reclusi, è stato portato nel CIE direttamente dal carcere, ma mai si aspettava di trovare un tale degrado. “All’interno del centro – ci ha spiegato con ansia – ci sono persone con gravi problemi di salute, che necessitano di cure specialistiche che non sono garantite”. Lui stesso dice di avere problemi di cuore e al sistema nervoso, di essere stato operato in passato e di dover assumere medicinali salvavita e sottoporsi a controlli costanti. Qui interviene un altro disservizio, ovvero la mancanza degli autisti, che Auxilium prevedeva anche per facilitare le visite ospedaliere: “adesso c’è solo un’ambulanza, che si mette in moto solo se uno cade per terra svenuto”. “In questo modo – prosegue – i giudici confermano la convalida di trattenimento oltre i 30 giorni anche per chi non sta bene, dicendo che non ci sono accertamenti medici che lo dimostrino”.

E i giornalisti restano fuori. Quella di Ibrahim è una fra le tante storie di persone che si trovano nei CIE pur vivendo in Italia da anni o avendo presentato richiesta di asilo. A toccare con mano la situazione sono state Barbara Spinelli, europarlamentare italiana e Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio che ha appena presentato un’interrogazione per chiedere chiarezza sul numero e sulla gestione dei centri per migranti presenti in regione. Venerdì 19 hanno visitato la struttura di Roma, incontrando i rappresentanti della nuova gestione e diversi ospiti e, all’ingresso del centro, una delegazione dei 67 dipendenti di Auxilium oggi senza lavoro. Ad accompagnarle dovevano essere alcuni giornalisti e avvocati membri della campagna LasciateCIEntrare, che per la prima volta da quando la campagna è stata istituita sono stati bloccati all’ingresso senza nessun provvedimento formale, salvo una comunicazione della prefettura che “sconsigliava” la visita, viste “le normali situazioni di disagio e criticità fisiologicamente legate alle fasi di cambio gestione”. Il racconto dell’onorevole Spinelli e di Bonafoni, accanto alla testimonianza diretta di Ibrahim e di altri migranti contattati, ai video e alle foto inviateci, sono però sufficienti a definire i contorni di una vicenda che ha ben poco di normale, tanto che Gabriella Guido, coordinatrice di LasciateCIEntrare, ha parlato di “una Guantanamo italiana, che aggiunge ulteriore disumanità a luoghi già di per sé disumani”. Per capirne meglio i contorni bisogna viaggiare dalle periferie parigine alle coste siciliane.

Chi sono i nuovi gestori. E’ alle porte di Parigi che ha sede infatti GEPSA, acronimo che sta per Gestione Penitenziari E Servizi Ausiliari, titolare dell’appalto per Ponte Galeria. La società è una branca del gruppo Cofely, holding dell’energia che ha 2200 dipendenti solo in Italia e lavora per numerose amministrazioni pubbliche. Cofely è a sua volta controllata da GDF-Suez, fra i colossi mondiali dell’energia, al secondo posto per fatturato nel 2013 con oltre 80 miliardi di euro. Nell’agrigentino ha sede invece Acuarinto, associazione culturale che dal 1996 gestisce centri per richiedenti asilo, vittime di tratta e minori non accompagnati, su finanziamento diretto del governo o tramite il sistema SPRAR. La cooperativa romana Synergasia, specializzata in interpretariato e mediazione linguistica, ci riporta infine nella capitale.

Spesa dimezzata, servizi dimezzati. Sono questi tre soggetti, con l’apporto di Cofely, ad aver vinto la gara di appalto per la gestione del CIE di Ponte Galeria, bandita dalla prefettura di Roma dopo la naturale scadenza dell’appalto della Auxilium. Una vittoria che segue a quelle già ottenute nel 2014 per i CIE di Torino e di Milano – quest’ultimo convertito in centro per richiedenti asilo – e per quello di Gradisca di Isonzo, in Friuli, che dovrebbe essere riaperto a breve. Appalti da milioni di euro, più di 2 e mezzo solo a Roma, aggiudicati sfruttando il criterio dell’asta al ribasso: oggi per Ponte Galeria si spendono circa 28 euro a persona al giorno, a fronte dei 41 euro del precedente appalto. Inevitabile che ciò si rifletta sugli ospiti. Diego Avanzato, direttore del CIE e membro di Acuarinto, ci ha spiegato come questo dato vada rapportato alla capienza massima del CIE, passata da 364 a 250 posti. A ben vedere, però, questo peggiora ulteriormente la questione: se alcune spese – come quelle per i dirigenti e per la struttura, che è la stessa – rimangono fisse, la quota riservata ai servizi sarà infatti ancora più bassa. Non a caso il pocket money destinato agli ospiti è sceso da 3,50 a 2,50 euro al giorno, e – ha raccontato Ibrahim – “non abbiamo visto né mediatori culturali né psicologi”.

Il sistema delle aste al ribasso. E’ il sistema che ha permesso a GEPSA e ai suoi soci di diventare il principale gestore dei CIE italiani – 5 oggi in funzione – e di entrare con forza anche nei centri per richiedenti asilo, dai CARA ai CDA, eliminando competitors come Croce Rossa e, per Ponte Galeria, Auxilium. Un mercato fruttuoso e difeso a suon di ricorsi incrociati al TAR: GEPSA e Eriches 29 Giugno – la cooperativa di Salvatore Buzzi, oggi arrestato per Mafia Capitale – si erano contese la gestione del CARA romano di Castelnuovo di Porto, oggi andato a Auxilium, mentre in Friuli GEPSA era stata costretta a ritirarsi dalla redditizia gestione di CIE e CARA dopo il ricorso al TAR della rivale Connecting People. A pagarne le spese sono gli ex-lavoratori, formalmente ancora dipendenti di Auxilium, che attendono il promesso riassorbimento nella nuova struttura, e soprattutto i migranti reclusi, che in poche ore hanno visto peggiorare condizioni di vita già molto difficili.

17 Dic, 2014

Chi si arricchisce (in maniera legale) sui Cie

Il business dell’accoglienza. Ai migranti le briciole. Il rischio è che la gestione passi tutta o quasi nelle mani di una società francese, la Gepsa per poter sfruttare le possibilità che lo Stato francese stava allora offrendo alle imprese private di partecipare al mercato della gestione e costruzione dei penitenziari d’Oltralpe. Un’apertura al privato legata alla decisione dello Stato francese di aumentare il numero dei posti disponibili nelle sue prigioni.
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09 Dic, 2014

Interrogazione Centri di Accoglienza

Verifica delle procedure di assegnazione degli appalti relativi alla gestione dei Centri di accoglienza per migranti nella Regione Lazio

Premesso che

– nel territorio della Regione Lazio sono presenti sia Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (C.A.R.A.) che Centri di Identificazione ed Espulsione (C.I.E.) che Centri di Accoglienza per migranti e richiedenti asilo, di carattere ordinario e straordinario, dislocati in maniera difforme;

– ultimamente gli organi di stampa locali hanno riportato alcune notizie, anche preoccupanti, riguardanti nuovi Centri di carattere straordinario nei Comuni di Pomezia (località Santa Palomba) e Nettuno. Negli articoli vengono riportati dubbi emersi a riguardo della fornitura di acqua potabile, che viene erogata da autocisterne, in merito alla sufficienza di abiti e cibo forniti nei Centri di Pomezia e anche rispetto all’inagibilità del centro di via Tinozzi a Nettuno, dove mancano il gas e l’allaccio all’energia elettrica. Dalle testimonianze dei pochi che hanno avuto la possibilità di entrare nel Centro, si tratterebbe di ambienti inadeguati ad ospitare persone, a maggior ragione se in condizione di vulnerabilità;

– i fatti inerenti l’inchiesta “Mafia Capitale” riguardano in maniera incontrovertibile la gestione dei Centri, l’opaco giro di affari e di appalti messi in essere nella loro gestione;

– la Regione Lazio ha fra i propri strumenti un tavolo per la gestione dell’emergenza immigrazione denominato “Tavolo di Coordinamento del Progetto Regionale per l’Inclusione sociale di Richiedenti/Titolari Protezione Internazionale-PRIR-Lazio”, approvato con DGR n. 201/2011 e attivato con la Determinazione n. B8677 del 16/11/2011.

Ritenuto che

– ad oggi non è dato modo conoscere al Consiglio Regionale, agli amministratori locali, alla cittadinanza, l’ubicazione di detti Centri, le ragioni che hanno indotto il Ministero dell’Interno, per mano dei propri organi periferici, a definirne capienza, localizzazione, scelta degli stabili adoperati a tale scopo, definizione degli enti gestori, convenzioni e capitolati definiti con i suddetti, qualità dei servizi offerti alle persone, svolgimento di attività di controllo per porre a garantire trasparenza e coerenza fra servizi garantiti e realmente offerti;

– si ritiene necessario venire a conoscenza dei costi di ogni luogo di accoglienza, dei risultati prodotti dai singoli Centri nel loro compito di garantire progressive condizioni di autonomia agli ospiti, di conoscere gli elementi di criticità rilevati per consentire anche un impegno atto a contribuire alla loro soluzione.
Considerato

– il diffuso timore e disagio che si è venuto a creare nel proprio territorio a causa della mancata collaborazione fra istituzioni e associazioni, sovente determinato anche dalla scarsa comunicazione con gli organismi del Ministero che hanno disposto tali procedure;

– che tale disagio ha in alcuni casi innescato comportamenti xenofobi e di intolleranza inaccettabili nella convivenza civile. Si è passati dalla raccolta di firme per ottenere la “cacciata” dei profughi, a manifestazioni di carattere violento che, se si sedimentassero, rischierebbero di sfociare in un clima su cui è necessario intervenire prima che sia troppo tardi.

Considerato inoltre che

– la possibilità dei cittadini e degli amministratori locali di essere coinvolti in alcune scelte derivanti dagli obblighi e dai doveri di accoglienza che tutti siamo chiamati a garantire, debba andare di pari passo con logiche di trasparenza amministrativa, di corretta e completa informazione.
Tutto ciò premesso e considerato,
si interroga

il Presidente della Giunta Regionale Nicola Zingaretti

– riguardo alle iniziative che si intendono prendere nei confronti del Ministero dell’Interno per la verifica delle procedure di assegnazione degli appalti relativi alla gestione dei Centri;

– riguardo alle iniziative che si intendono prendere nei confronti del Ministero dell’Interno perché si provveda ad una mappatura che permetta di conoscere l’esatta ubicazione di detti Centri.

18 Nov, 2014

Conferenza Stampa al CIE di Ponte Galeria

Venerdì 19 dicembre, ore 14.00
Ponte Galeria

Conferenza stampa davanti all’ingresso del Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria sulla via Portuense (all’altezza del Km 10), a margine del sopralluogo all’interno della struttura.

Sarà l’occasione per rendere conto delle condizioni delle condizioni dei migranti reclusi all’interno del centro e per illustrare alla stampa l’interrogazione urgente presentata ieri al Presidente Nicola Zingaretti per sollecitare una verifica presso il Ministero degli Interno delle procedure di assegnazione degli appalti relativi alla gestione dei Centri di accoglienza per migranti nel Lazio e per avviare una mappature con esatta ubicazione di tutte le strutture.

16 Mag, 2014

Rivolta dei rifugiati, la polizia interviene con idranti e manganelli

La rivolta al Cara (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto, è cominciata la mattina presto. Un gruppo di rifugiati e richiedenti asilo “ospiti” della struttura (che ne potrebbe accogliere 300 ma dove ne sono stipati più del doppio), ha chiuso le porte al centro impedendo il cambio di turno tra gli operatori.

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08 Mag, 2014

Salvini dice che i Cie non servono? Infatti, vanno chiusi

Matteo Salvini, facendo visita alla struttura di Ponte Galeria, si chiede se i Cie servano. Noi a questa domanda abbiamo già risposto da tempo con una mozione presentata in Consiglio regionale per chiedere la chiusura di questi luoghi aberranti, dove i diritti umani vengono negati, vere e proprie carceri a cui sono costretti uomini e donne colpevoli solo di “essere” qualcosa, come dice Salvini dei “clandestini”, senza aver commesso reati.

Forse le persone trattenute, a forza, nei Cie non dovrebbero ricevere neppure vitto e alloggio? Addirittura non avere un medico che possa curarli? Il segretario della Lega dovrebbe provare sulla propria pelle come vive un ‘detenuto’ del Cie, senza un nome, un diritto, una speranza per il futuro. Non è mettendo i cittadini migranti contro i cittadini italiani che si possono risolvere i problemi del nostro Paese, e neppure ottenere una svolta sulle politiche migratorie europee.

Su una cosa però occorre dare indirettamente ragione al “Salvini Furioso” in campagna elettorale. Come lui stesso ha constatato oggi con i suoi occhi a Ponte Galeria la legge Bossi-Fini, che porta il nome del fondatore della Lega e che ha rilanciato i Cie in modo potente e convinto, non solo ha fallito, visto che da quando è in vigore solo lo 0,9% degli stranieri arrivati in Italia è stato respinto nei suoi Paesi d’origine, ma sta anche pensando sulle spalle dei contribuenti per una cifra stimata pari ad almeno 55 milioni l’anno.