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Stefano Cappellini, La Repubblica

Quando Giuliano Pisapia, solo pochi mesi fa, si è mosso in prima persona per contribuire alla rinascita di un centrosinistra largo, Barack Obama era ancora alla Casa Bianca, la Gran Bretagna nella Ue e il Pd unito sotto lo stesso tetto. Il tempo fugge e, secondo Pisapia, quello a disposizione della sinistra italiana per darsi un assetto coerente alle nuove sfide globali sta per scadere: “Le elezioni francesi – dice l’ex sindaco di Milano a Repubblica – ci ricordano che la sinistra divisa va incontro a un solo destino: la sconfitta. Se le primarie lo confermeranno segretario del Pd, a Matteo Renzi resta meno di un mese per dare un segnale chiaro: cambiare la legge elettorale e costruire una coalizione. Altrimenti il centrosinistra andrà incontro a una sconfitta che definirei generazionale, perché ci vorrà appunto una generazione prima che si possa ricostruire la fiducia e la partecipazione del proprio elettorato”.

Renzi non ha dato alcun indizio di voler andare in questa direzione.
“Gli indizi non sono favorevoli, ma credo ancora alla possibilità di una svolta. Sono favorevole al Mattarellum. Se però non ci sono i voti in Parlamento, può funzionare anche il sistema che il Pd ha proposto in commissione: collegi e premio di maggioranza moderato. Purché si chiarisca se il premio va alla lista o alla coalizione. Serve il secondo, se si vuole mettere in campo una alleanza larga di centrosinistra”.

La tesi dell’alleanza larga è degli sfidanti di Renzi alle primarie. Fa il tifo per loro?
“Non sono iscritto al Pd, sono uno spettatore interessato perché, senza i dem, per l’Italia non c’è un futuro di centrosinistra. Spero che, chiunque sarà il nuovo segretario, non stravolga la storia di un partito che nel tempo è cambiato ma il cui elettorato non ha mai rinnegato il suo essere di sinistra”.

La sinistra è fresca di scissioni a catena. Come si riunisce chi si è appena lasciato?
“Ascoltando la domanda di unità che proviene dalla base. Esiste una sinistra ragionevole, un mondo che non ha paura della sfida di governo, e che insieme a voci civiche, ambientaliste e moderate al Pd dice: alleiamoci su un progetto per il Paese o sarà la fine. Ha sentito cosa ripete in queste ore Romano Prodi? Io confido che Renzi raccolga questo appello”.

Altrimenti?
“Altrimenti questo stesso mondo dovrà trarre le conseguenze e attrezzarsi a dare una rappresentanza autonoma alle proprie idee. Ma il rischio concreto è che, da questo quadro esploso, esca la peggiore sconfitta degli ultimi decenni”.

È pronto a essere il candidato premier di uno schieramento a sinistra del Pd?
“Non sono sceso in campo per questo né per fondare partitini del 3 per cento. Senza un’intesa anche con il Pd, si porrà presto il tema della leadership. Un passo alla volta”.

In Francia sono fuori dal ballottaggio sia il socialista Hamon che il più radicale Mélenchon. In Gran Bretagna Corbyn pare fuori dai giochi. In Spagna i socialisti hanno perso a ripetizione. La sinistra è in crisi irreversibile?
“La sinistra, ovunque, quando si divide perde. I partiti tradizionali non riescono ad avere la fiducia degli elettori. Ma se si sommano i voti di Mélenchon, che non è estremista, a quelli socialisti, si ha la prova che il campo di centrosinistra è tutt’altro che sparito.

La sinistra è vista da una parte di opinione pubblica come un pilastro dell’establishment responsabile della crisi. A ragione?
“In parte sì. In Italia, in particolare, ha restituito l’immagine di una nomenclatura chiusa. Per troppi anni gli elettori hanno visto le stesse facce scambiarsi ruoli all’interno del gruppo dirigente. È mancato un ricambio e la volontà di agevolarlo. Io, da sindaco, avevo in giunta ragazzi di 28 anni che spesso mi facevano riflettere sul valore di questioni che non avevo gli strumenti per capire”.

Le speranze di fermare Marine Le Pen sono affidate al centrista Macron, sostenuto da un elettorato trasversale. Non teme che questo scenario francese dia nuovi argomenti a chi sostiene che, per battere Grillo e Salvini, occorre un fronte dei “responsabili” anche in Italia?
“Mi sembra il contrario. A parte la differenza di sistema elettorale, la ragione fondamentale è politica: è un grave errore dire che il discrimine fondamentale non è più tra destra e sinistra. Innanzitutto perché non è vero e poi perché non offre chiarezza. Ci sono due possibili ordini di risposte ai problemi di fondo, dalla povertà alla crescita: quelle della destra securitaria e parolaia e quelle di una sinistra responsabile e pragmatica”.

La manovrina di primavera racconta che il governo di sinistra non riesce a districarsi tra il rigorismo europeo e la volontà di metterlo in discussione.
“In questo caso le notizie dalla Francia sono positive. Macron è un’europeista convinto ma critico. Le regole europee vanno rispettate, ma cambiate quando è necessario. A settembre si voterà in Germania, e se come pare il presidente Schulz avrà un buon successo, potrà esserci un fronte compatto per modificare le regole di Bruxelles. Non per distruggere quello che si è costruito in 70 anni, ma per rispondere alla crisi più drammatica dell’economia dal 1929”.

Su molti temi, anche i 5S – già simpatizzanti di Trump – coltivano posizioni affini a Le Pen: sovranismo, protezionismo, polemica dura sui migranti. C’è differenza tra il populismo lepenista e quello grillino?
“La differenza c’è e si vede. Credo che moltissimi sostenitori del M5S sarebbero furibondi all’idea di essere assimilati ai lepenisti. Il 5Stelle è un movimento trasversale, nato da posizioni in parte condivisibili e capace, come nel caso del testamento biologico o delle unioni civili, di sposare posizioni molto avanzate”.

Ma con i 5S è ipotizzabile un asse di governo, come evoca Pier Luigi Bersani?
“Un accordo strutturale no. Sui singoli temi, è possibile una proficua collaborazione. Quanto ad alcuni dei loro argomenti forti – dalla sobrietà alla lotta ai privilegi – la sinistra deve saperli recuperare perché è dimostrato che, quando succede, il M5S non tocca palla”.

Grillo attacca i radicali e corteggia l’elettorato cattolico. Corteggiamento reciproco, a giudicare dalle posizioni di parte della Chiesa. Crede che sia una manovra solo elettorale o in prospettiva può cambiare equilibri reali, vista la mole di leggi sui diritti civili ancora impantanate o mai discusse?
“Dice bene. Una parte, della Chiesa. Il primo risultato di quello che lei definisce un corteggiamento del mondo cattolico intanto ha prodotto una divisione nella Chiesa. Non esiste più un mondo cattolico monolitico. Se parliamo dell’offensiva sul lavoro domenicale, non possiamo dimenticare che il M5S si è detto favorevole a una battaglia dei sindacati e di una parte della sinistra. Sui migranti, invece, non ci può essere differenza più marcata. Mi chiedo cosa può pensare la Chiesa su quanto sostiene il M5S, peraltro diviso al suo interno, sull’assistenza ai disperati che fuggono da guerra e miseria”.

E Berlusconi? Una legge che incentivi le coalizioni non porta con sé il rischio che il centrodestra superi le sue profonde divisioni e torni maggioranza elettorale?
“È una possibilità, comunque meno grave di una sinistra che va divisa alla battaglia decisiva. E poi attenzione: se Fi, Lega e Fdi corrono da soli prendono nel complesso più voti. Il cartello elettorale può invece scoraggiare molti elettori dal sostenere una coalizione con Salvini e Meloni”.

Lei paventa un tracollo della sinistra. Ma, senza una vera riforma elettorale, quasi certamente saranno le alleanze in Parlamento a decidere il governo. L’abbraccio Pd-Berlusconi pare a molti inevitabile.
“Sarebbe innaturale. Mettere insieme qualcosa e il suo opposto non può funzionare. L’effetto delle larghe intese sarebbe l’equivalente di una sconfitta elettorale: ci vorrebbero anni per riconquistare la fiducia degli elettori”.

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