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Sarà per quelle matite e quelle vignette, così vicine ai codici che lui stesso utilizza, ai giornalini che sfoglia, ma per la prima volta ieri mi sono ritrovata a parlare seriamente con mio figlio di che cos’è il terrorismo. E di che cosa vuol dire libertà. Rocco ha 11 anni. Quando vennero giù le Torri Gemelle non era ancora nato, gli attentati che sono seguiti, in Europa, negli Stati Uniti, in Medio Oriente, in Africa, li aveva probabilmente fino a oggi vissuti come un’ubriacatura d’immagini consumate davanti alla tv, troppo simili a tanti film visti insieme magari al cinema, davvero molto simili ai giochi che con gli amici si scambiano sui telefonini.

Ieri no. Ieri è stato diverso. Quei colpi sparati dentro la redazione di un giornale, durante una riunione come tante simili che negli anni io stessa gli ho raccontato: l’importanza di quei momenti, per la comprensione e l’analisi della notizia, che poi va raccontata al pubblico, la responsabilità che ha chi fa questo mestiere… La morte arrivata contro quelle vignette che tante volte ci era capitato di leggere e tradurre insieme, sull’ultima pagina di Internazionale, quelle matite spezzate…

Ieri mio figlio Rocco ha fatto una specie di salto indietro nel suo percorso di formazione.
Insieme, abbiamo ricominciato dai “perché” di un bambino, ormai quasi adolescente, di fronte alla morte.

Perché lì mamma? Perché loro? Perché quelle vignette davano fastidio? Che c’entra la satira con la morte? Arriveranno anche da noi? Perché a Parigi hanno messo la polizia fuori dalle scuole?

Abbiamo letto insieme, allora, io e lui fino a tardi, le notizie che arrivavano dai siti e dai social network dalla Francia. Ho cercato di capire con lui la dinamica dell’assalto, la scelta di uccidere proprio dentro quel giornale e quei giornalisti. Abbiamo rivisto quelle vignette, che già ci avevano fatto sorridere e pensare. Soprattutto pensare. Si è fatto tradurre cosa volesse dire quella frase pronunciata dagli attentatori mentre uccidevano “Allah Akbar”, che c’entra Dio, mamma? mi ha chiesto.

Già. Che c’entra.

Il video del poliziotto finito a freddo mentre era a terra in strada no, certo che non gliel’ho fatto vedere.
Ma gli ho fatto notare che anche lui era musulmano, e quindi vedi che la religione non c’entra niente.

Così sempre insieme, a letto, abbiamo letto le prime parole scritte dalla nostra amica scrittrice Igiaba Scego. “Not in my name”, dice Igiaba. Anche lei è musulmana, lo vedi Rocco? La religione non c’entra niente. E oggi il suo cuore piange più del nostro.
E chissà quanti musulmani, cristiani, ebrei, atei e quant’altro ci sono in queste piazze francesi così belle e piene e umide di lacrime ma pronte nella risposta che scorriamo insieme nella tante gallery che si trovano in rete. E le vuoi vedere tutte, e ti arrabbi perché sono troppo veloce nel farti leggere le didascalie.

E una volta di più stride di fronte a noi il faccione cinico di Marine Le Pen, e dei tanti che ora ne approfitteranno, aggiungendo altro odio all’odio, con l’intenzione di inghiottire tutto e tutti.
Anche i tuoi compagni di classe certo. Che hanno nomi arabi, ma sono cittadini romani identici a te.

Oggi andrò a prenderlo a scuola, Rocco. Glie l’ho promesso. E gli ho proposto di andare insieme alla fiaccolata sotto l’ambasciata di Francia. Non so se alla fine vorrà venirci, non ama le manifestazioni. Dice che per avere 11 anni glie ne ho già fatte fare troppe… E’ polemico come tutti i ragazzini della sua età.

Di certo però da ieri siamo anche noi mobilitati (fino a ieri ero io mobilitata, e lui di conseguenza).
Per la libertà, per un futuro giusto.

Di certo da ieri anche Rocco è Charlie Hebdo.

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