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In Italia la possibilità di abortire è sancita dalla legge 194, voluta dai cittadini col referendum. Ma 7 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza, e quindi farlo in ospedale è sempre più difficile. Così molte italiane vanno all’estero, fanno su e giù per la Penisola o ricorrono all’aborto clandestino.

Da 540 a 1.330 sterline per l’aborto farmacologico, da 670 a 1.770, a seconda delle settimane, per quello chirurgico. Prenotazioni 24 ore su 24, sette giorni su sette, online. Le italiane che si rivolgono al British Pregnancy Advisory Service sono migliaia, tanto che in Inghilterra le richieste seguono solo quelle delle irlandesi. E poi la Svizzera, la Francia, con gli ospedali di Nizza che non accettano più nostre connazionali, perché ormai sono la metà di quelle che richiedono un intervento. E chi non può permettersi di pagare, fa il suo pellegrinaggio su e giù per la Penisola tentando di mendicare un diritto, fino ad arrivare alla clandestinità. Fino a morire.

«Ero alla decima settimana, ma all’ospedale di Palermo mi hanno detto che non ero più in tempo. A causa della lista d’attesa avrei di certo superato le 12 settimane e cinque giorni previsti come limite. E così solo partita da sola, con un treno, verso nord», la voce di Maria si incrina «fa male, ti fanno sentire in colpa. Abortire è doloroso, farlo in Italia ancora di più». Perché nel nostro Paese la possibilità di abortire è sancita da una legge, la 194, voluta dai cittadini che si sono espressi con un referendum, ma farlo è sempre più difficile.

Sette ginecologi su dieci sono obiettori di coscienza, in continuo aumento e con percentuali che superano l’80 per cento nel Sud. A Napoli quanto è morto il ginecologo del Policlinico Federico II hanno dovuto interrompere il servizio, a Roma solo un medico su dieci non è obiettore, e in molti presidi, come quelli di Treviglio o Montichiari, il tasso di obiezione arriva al cento per cento.

«La legge diventa inapplicabile e il problema non riguarda solo le interruzioni volontarie di gravidanza, ma soprattutto gli aborti terapeutici» spiega Lisa Canitano, ginecologa dell’associazione Vita di donna, no profit che fornisce assistenza e consulenza per la salute delle donne. «Sono madri che desiderano la gravidanza, ma davanti a gravi malformazioni vogliono interromperla e lo fanno con molta sofferenza». La legge prevede che si possa effettuare dopo i 90 giorni, causa ‘rischio psicofisico materno’, ma «servono medici ospedalieri, non si possono chiamare da fuori, e accade che molti obiettori proibiscano l’intervento anche solo se loro sono di turno e fanno altro».

Una follia considerando che l’amniocentesi, un esame che serve proprio per diagnosticare eventuali anomalie, è effettuato anche in strutture cattoliche come il Policlinico Gemelli di Roma. E a farlo sono medici obiettori, che trovano molto nobile praticare una ricerca così sofisticata. Peccato sia un esame che presenta complicanze, compresa la morte del feto. Eppure se una donna assume questo rischio e sfortunatamente si riscontra una malformazione, lo stesso medico obiettore si rifiuta di praticare l’aborto. Contraddizioni del Belpaese in cui l’esercizio di convinzioni etico-religiose compromette l’erogazione di una prestazione medica sulla carta garantita.

La scelta di abortire un figlio che si voleva è orribile, ma girando per le corsie e le associazioni la realtà da affrontare lo è ancora di più. «Devi sperare in un parto prematuro e sperare che muoia. Ti costringono a passare dal parto oppure devi fare la pazza. Un dottore mi ha detto: ‘si butti in un pronto soccorro, faccia la pazza e vedrà che dopo la perizia psichiatrica la fanno abortire’, si rende conto? E io Luca lo desideravo, lo volevo, avevo già preso le tutine azzurre». La storia di Linda è la storia di tante future mamme costrette a vivere un dramma o a emigrare all’estero in cerca di cure.

Sottovoce una ginecologa racconta che un po’ di tempo fa una paziente è dovuta andare in Grecia e pagare 4 mila euro per abortire. «Le si era rotto il sacco a quattro mesi. Quando accade ci dovrebbe essere l’aborto terapeutico perché il bambino non sopravvivrà e la madre rischia di morire, ma in un noto ospedale cattolico della Capitale, in cui tutti erano obiettori, si sono rifiutati di intervenire. E hanno detto no anche i medici di altri ospedali laici. Meglio non mettersi nei guai con una paziente a rischio. Alla fine è arrivata una dottoressa greca, si sono accordate per il pagamento. Per abortire se ne è andata ad Atene».

E dire che stando ai dati della relazione ministeriale 2012 sullo stato d’attuazione della legge 194, gli aborti sono in calo: meno quattro per cento solo nell’ultimo anno e le minori italiane si classificano al primo posto come le più accorte tra le ragazzine europee. Sembrerebbe una buona notizia, quasi miracolosa considerando le poche campagne informative sulla contraccezione, se non fosse che gli aborti spontanei sono in aumento, 75 mila nel 2011 quelli dichiarati all’Istat, uno su tre pare frutto di interventi casalinghi finiti male. E nell’Italia dell’interruzione volontaria di gravidanza legale si ritorna alla clandestinità. Le ultime stime, mai aggiornate dal 2008, parlano di ventimila aborti illegali. Quelli reali forse sono il doppio o anche di più. Perché chi non ha i soldi per spostarsi alla ricerca di un diritto negato, non ha scelta.

Lo sanno bene negli ospedali delle periferie dove le più giovani, le migranti, le prostitute arrivano in fin di vita, con emorragie e infezioni. Farmaci abortivi di contrabbando, ambulatori clandestini gestiti dalla mafia cinese, istruzioni su internet su come poter trovare medicinali a base di misoprostolo lamentando dolori all’ulcera o reumatismi, spiegazioni su quante pillole prendere e su come espellere il feto nel bagno di casa. Molte ragazzine italiane fanno così, che i consultori sono sempre meno e se entrano in un pronto soccorso per essere dimesse i sanitari devono avvertire i genitori. Del resto se la pillola del giorno dopo, che non è un farmaco abortivo, ma contraccettivo, non viene prescritta ad una deputata dal medico di Montecitorio, figurasi ad una donna fragile e in difficoltà. E non va meglio con l’Ru486, la pillola abortiva. «Ero alla quinta settimana e avevo deciso che la pillola sarebbe stato il modo più veloce e meno invasivo per terminare questa gravidanza indesiderata.

Impossibile trovare informazioni chiare su cosa fare per reperirla. Finalmente tramite un’ostetrica e Vita di donna riesco a capire che devo recarmi al San Camillo, unico ospedale a Roma, ma molto presto e con delle analisi delle urine che attestino la gravidanza. Quanto presto non si sa, suggeriscono le sette. Arrivo presto, ma c’era gente dalle cinque del mattino e le persone che visitano per prendere la pillola sono solo dieci, ma la danno solo a cinque. Dopo quattro ore, mi fissano un appuntamento due settimane dopo, cioè quando avrei rischiato di andare oltre il tempo massimo», racconta Anna, giovane madre di due bimbi. «L’Italia scandalosamente è all’ultimo posto nel ricorso alla metodica farmacologica tra i Paesi dove si pratica l’aborto legalmente. In barba alle raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità» tuona Mirella Parachini dell’associazione Luca Coscioni.

Per il Movimento per la Vita meglio così perché «lascia sole le donne, inducendole a sofferenze molto simili all’aborto clandestino». Di certo è inaccessibile a gran parte delle donne e le poche che riescono ad assumerla devono rimanere in ospedale tre giorni. Tre giorni di ricovero che pesano sulle casse di un Sistema Sanitario Nazionale già in crisi. Eppure in Svizzera la stessa pillola, al costo di 600 euro, viene data in uno studio privato. «Prendi la prima pasticca davanti al dottore, firmi un foglio e la seconda la assumi dopo tre giorni a casa tua in Italia» spiega Anna.

Oltre a non garantire a ogni donna le stesse possibilità di accedere alla legge, l’alta percentuale di obiettori comporta poi costi aggiuntivi per le strutture: perché se i medici regolarmente assunti rifiutano di praticare l’aborto, allora l’ospedale deve ricorrere agli esterni con la chiamata ‘a gettone’.Una spesa che solo in Lombardia ammonta ogni anno ad oltre 300 mila euro.

Ad ammettere che ci sia «qualche criticità», è lo stesso ministro della Sanità Beatrice Lorenzin che ha parlato di una «distribuzione inadeguata del personale» fra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione. Avvierà un monitoraggio e cercherà una via per la ridistribuzione del personale, ma la situazione pare più complicata. Il Movimento 5 Stelle è arrivato a chiedere di modificare la legge e prevedere che ogni struttura ginecologica pubblica assuma la maggioranza del personale tra i non obiettori, ma bisognerebbe capire che fare con il personale già assunto e soprattutto ci sarebbe il rischio di una modifica restrittiva della legge.

Che fare poi se un medico nel tempo cambia idea e diventa obiettore? Fino ad oggi oltre alle convinzioni personali, sembra che molti lo facciano per ragioni di carriera, una scelta per non essere discriminati. «Se si assumono medici con la condizione di fare interruzioni di gravidanza poi non li si può licenziare perché fanno obiezione, ma se fossero militari e diventassero testimoni di Geova il problema non si porrebbe. Evidentemente l’esercito è molto più “Stato” rispetto alla sanità, che troppo spesso è terra di nessuno» nota una ginecologa esasperata dalla situazione. Una terra di nessuno in cui si lascia al caso l’applicazione di una legge.

Silvia Cerami, L’Espresso

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