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Il lettore M. di Alessandria ha un figlio di due anni e mezzo che, appena incrocia una persona per strada, le getta la voce al collo: «Ciao ciao signore!», «Ciao ciao signora!». Poi si ferma ad aspettare dallo sconosciuto un cenno che lo rassicuri sul fatto di essere considerato con analoga attenzione. Il quartiere dove M. passeggia con suo figlio è frequentato da una fauna variopinta e stratificata: puoi trovarvi la donna col chador e l’indigeno anziano che rimembra ancora di quando i Grigi dell’Alessandria sconfissero per due a zero il Grande Torino (era il 1947). Ma per il piccolo inesausto salutatore non esistono differenze. Alla donna col chador e all’indigeno anziano affida lo stesso «ciao ciao» ecumenico, da non confondersi col «ciaociao» nevrotico che gli adulti sputano nei loro telefonini al termine di una conversazione.

M. contempla il mondo con gli occhi di suo figlio e pensa al giorno, ormai prossimo, in cui l’incanto finirà. Quando anche lui, come ogni altro abitante del pianeta, comincerà a nutrirsi di contrapposizioni rassicuranti: italiani e stranieri, belli e brutti, ripetenti e promossi, juventini e milanisti. Un piano inclinato, dove per affermare la propria debole individualità si corre sempre più in fretta verso la sottolineatura delle divergenze, fino a sentirsi diversi da tutti gli altri e al tempo stesso così anonimi. Secondo M., la società dovrebbe difendere con i denti la propensione dei bambini di due anni e mezzo a considerare le persone tutte uguali tra loro e tutte uguali a noi. Invece passiamo l’infanzia a dimenticare ciò che a due anni e mezzo sapevamo benissimo. E il resto della vita a cercare di ricordarcelo.

Massimo Gramellini (La Stampa)

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